top of page

iscriviti

Riceverai un aggiornamento quando viene pubblicato un nuovo articolo

INVIATO!

NUMERO 51

  • Immagine del redattore: Alice Rondelli
    Alice Rondelli
  • 2 nov
  • Tempo di lettura: 14 min
«Nessun luogo al mondo è come casa» diceva Dorothy nel film Il Mago di Oz. È per questo motivo che i palestinesi non vogliono abbandonare la loro terra nonostante lo sterminio che stanno subendo; gli israeliani, invece, adattano il loro senso di appartenenza a seconda dell’esigenza. Conciliare le due cose appare impossibile, ma un fatto è certo: la Casa Bianca sa bene qual è il suo cortile di casa.
ree
"Casa", di Tutto e Niente (2025)

Alabama, Alaska, Arizona, Arkansas, California, Colorado, Connecticut, Delaware, Florida, Georgia, Hawaii, Idaho, Illinois, Indiana, Iowa, Israel, Kansas, Kentucky, Louisiana, Maine, Maryland, Massachusett, Michigan, Minnesota, Mississippi, Missouri, Montana, Nebraska, Nevada, New Hampshire, New Jersey, New York State, New Mexico, North Carolina, North Dakota, Ohio, Oklahoma, Oregon, Pennsylvania, Rhode Island, South Carolina, South Dakota, Tennessee, Texas, Utah, Vermont, Virginia, Washington State, West Virginia, Wisconsin, Wyoming.

 

 

Nella smorfia napoletana il numero 51 rappresenta “il giardino”, ed in effetti Israele è proprio il cortiletto di casa degli Stati Uniti d’America con una vista eccezionale: il Medioriente e le sue numerose risorse economiche. Come, ad esempio, il giacimento di gas denominato Gaza Marine, un campo sottomarino situato a circa 36 chilometri dalla costa di Gaza che – scoperto nel 1999 dalla British Gas – è considerato uno dei principali giacimenti di gas naturale non sfruttati nel Mediterraneo orientale. Le sue riserve sono stimate in circa 1 trilione di piedi cubici (circa 28 miliardi di metri cubi), una quantità significativa che potrebbe trasformare la vita di milioni di palestinesi, al punto da rendere questa terra martoriata un grande produttore di energia. Poi ci sono le province Siriane di Dayr al-Zawr e di Hasaka, ricche di giacimenti di gas naturale per lo più controllate dagli Stati Uniti; e i giacimenti di idrocarburi non ancora sfruttati al largo delle coste Libanesi.

 

Ma com’è nato il 51 Stato Americano che chiamiamo “Israele”?

Secondo l’ISPI (Istituto per gli Studi di Politica Internazionale) «alla fine del XIX secolo il giornalista ungherese-austriaco Theodor Herzl elaborò l’ideologia del Sionismo, un movimento politico che rivendicava il diritto all’autodeterminazione del popolo ebraico, ipotizzando la Palestina e l’Argentina come possibili destinazioni per l’insediamento dei coloni. Fu la connessione culturale e religiosa con Gerusalemme che spinse il movimento sionista a optare infine per la Palestina, all’epoca definita comunemente come l’area geografica delimitata a ovest dal Mar Mediterraneo e a est dal fiume Giordano. Anche se la migrazione di ebrei europei verso questo territorio era cominciata già alla fine dell’Ottocento, il fenomeno divenne più consistente con la fine della Prima guerra mondiale, dopo che gli inglesi riuscirono a sottrarlo all’Impero ottomano. Le rivendicazioni del movimento sionista trassero forza dalla Dichiarazione Balfour, ovvero il contenuto di una lettera che nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour scrisse a lord Lionel Walter Rothschild, sionista e membro di spicco della comunità ebraica inglese, nella quale il governo di Sua Maestà affermava il suo supporto alla creazione di un “focolare nazionale ebraico” in Palestina».

 

«Alla fine del primo conflitto mondiale i paesi vincitori decisero di spartirsi le province arabe dell’Impero ottomano. Alla Conferenza di Sanremo del 1920 il territorio della Palestina, assieme a quelli degli attuali Iraq e Giordania, fu affidato alla Gran Bretagna, mentre i territori corrispondenti all’attuale Siria e Libano passarono sotto il controllo della Francia. La presenza di Londra e Parigi in questa regione fu poi istituzionalizzata dalla Società delle Nazioni – nucleo di quelle che poi saranno le Nazioni Unite – con la creazione dei Mandati. Si trattava di un sistema con cui le potenze coloniali si impegnavano ad amministrare questi territori e ad accompagnarli nel percorso verso l’indipendenza. Ma il conferimento del Mandato di Palestina alla Gran Bretagna, potenza che aveva dichiarato pubblicamente di voler facilitare l’immigrazione degli ebrei europei in quel territorio, fu mal accolta dalla popolazione locale. Gli anni del Mandato furono infatti segnati dallo scoppio di moti di protesta, spesso caratterizzati da episodi di violenza contro gli inglesi e la comunità ebraica, rinvigorita anno dopo anno dall’arrivo di nuovi migranti. Questi finirono per cambiare l’assetto demografico della Palestina: se nel 1922 gli ebrei rappresentavano l’11% della popolazione, il loro numero raggiunse il 32% nel 1947 (e questo malgrado la crescita della popolazione araba, raddoppiata nello stesso periodo).»

 

«Con il secondo conflitto mondiale Londra decise di rimettere il Mandato alle Nazioni Unite, che intanto avevano sostituito la Società delle Nazioni, e di lasciare a loro la decisione sul futuro della regione. Nel novembre 1947, l’Assemblea generale dell’ONU approvò una risoluzione (la numero 181) che prevedeva la spartizione della Palestina in due stati, uno ebraico e uno arabo, e che affidava Gerusalemme a una giurisdizione internazionale. Questa decisione fu accolta positivamente dalla comunità ebraica ma rigettata da quella araba, che dopo essersi opposta per anni all’immigrazione di massa di ebrei europei, rifiutava la possibilità che questi ottenessero uno stato indipendente. A quel punto le relazioni tra ebrei e arabi degenerarono, sfociando dapprima in guerriglia e poi, con la fine ufficiale del Mandato e la partenza degli inglesi, in un vero e proprio conflitto armato. Il 15 maggio 1948, a seguito della Dichiarazione di indipendenza dello stato di Israele, gli eserciti di Egitto, Transgiordania, Siria, Libano e Iraq decisero di attaccare, dando il via alla prima guerra arabo-israeliana. Al termine del conflitto, che si risolse nel 1949 con la sconfitta degli eserciti arabi, i confini del neonato stato di Israele comprendevano circa il 78% del territorio della Palestina mandataria. Rimanevano fuori dal suo controllo la Cisgiordania (o “West Bank”, dato che si trova a ovest del fiume Giordano) e la cosiddetta Striscia di Gaza, occupate rispettivamente dalla Giordania e dall’Egitto. Durante il conflitto, inoltre, circa 700mila palestinesi furono costretti a lasciare le proprie case, in parte per paura della guerra e in parte perché minacciati dall’esercito israeliano. Quest’esodo forzato è conosciuto in arabo come Al-Nakbah, la catastrofe.»

Una seconda Nakbah si sta verificando in Palestina proprio mentre scrivo queste righe, con l’esercito israeliano che tenta di portare a compimento il suo piano genocidiario sfollando due milioni di palestinesi dalla propria terra un bombardamento alla volta.

Da allora ci sono stati oltre settant’anni di soprusi, violenze, arresti, omicidi, stragi, operazioni militari su larga scala, espropri di terre, incendi dolosi dei campi di ulivi palestinesi, migliaia di civili uccisi, mutilati, affamati, umiliati… Fino ad un report dell’ONU datato settembre 2025 che riporta: «dal 7 ottobre 2023 a Gaza sono state uccise 65 mila persone, di cui il 75% sono donne e bambini».

È il genocidio palestinese, cominciato con un’idea: il suprematismo sionista, che ancora oggi trova la sua legittimazione nei cittadini israeliani, che per l’80% ritengono Netanyahu non abbastanza deciso nello sterminare tutti i palestinesi.

 

Abbiamo dato un’indispensabile occhiata all’excursus storico nella consapevolezza che non basti a comprendere come si sia arrivati al secondo anniversario del genocidio del popolo palestinese ad opera delle milizie dell’IDF israeliana.

 

A inizio ottobre 2025, le quaranta imbarcazioni che componevano la Global Sumud Flottilla (movimento che mira a forzare il blocco navale israeliano a Gaza) sono state fermate ad una manciata di miglia nautiche dalla costa palestinese, in acque internazionali. e gli attivisti a bordo arrestati dall’IDF. Una sola imbarcazione, la Coscience, era riuscita a forzare il blocco, ma non ha comunque potuto sbarcare il suo carico di aiuti umanitari perché è stata raggiunta dall’esercito sionista.

Durante quella stessa notte nelle piazze italiane si è riversato un fiume di persone in segno di solidarietà alla Flottilla e in aperto contrasto con la decisione del governo di non proteggere i cittadini italiani oltre le 145 miglia nautiche dalla costa palestinese, gesto considerato un vero e proprio supinaggio dinanzi alla vera mano dietro il genocidio palestinese: gli Stati Uniti d’America.

I portuali di Genova e Livorno hanno bloccato le navi attraccate per rifornirsi di carichi diretti in Israele; «Neanche un chiodo», aveva detto il rappresentante dei portuali solo un paio di settimane fa: e così è stato.

A Torino, Milano e Bologna la polizia in assetto anti-sommossa non ha lesinato sulle manganellate. Il grido è stato unanime: BLOCCHIAMO TUTTO. Per “tutto” si intende il Paese.

L’Unione Sindacale di Base si è confermata ferma e netta nel riunire attorno a sé i lavoratori. In migliaia hanno aderito agli scioperi di venerdì 3, sabato 4 e domenica 5 settembre. Le testate giornalistiche di tutto il mondo hanno diffuso le potenti immagini dei cortei che hanno invaso città grandi e piccole della nostra penisola in sostegno al popolo palestinese. Contestualmente, anche le piazze di Amsterdam e Madrid si sono riempite di manifestanti e di bandiere di colori che ormai conosciamo bene.

Arrestata in acque internazionali e scarcerata il 6 ottobre, Greta Thunberg ha confermato di essere stata avvolta nella bandiera israeliana e mostrata «come un trofeo» durante la sua detenzione, spinta a terra e insultata, ma grida forte e chiaro ai microfoni: «It’s true, but this is not the story». Quello che intende l’attivista svedese è che infondo non importa cos’è accaduto ai membri degli equipaggi della Flottilla – che uno ad uno stanno rientrando nei propri Paesi – ciò che conta è non distogliere neanche per un attimo lo sguardo dalla situazione a Gaza, perché fermare ciò sta subendo il popolo palestinese è l’unica cosa che conti davvero.

 

Alla fine, quello che balza agli occhi è che non dovevamo chiederci: «Cosa posso fare per la Palestina?», quanto piuttosto renderci conto di ciò che la Palestina sta facendo per noi.

Le immagini dei civili straziati dalle bombe che ci scorrono sotto gli occhi costantemente sui social media ci hanno cambiati. Non siamo più gli stessi di due anni fa. Adesso vediamo l’oppressore in tutta la sua arroganza e malvagità, adesso abbiamo davvero paura che prima o poi possa toccare a noi, perché la tracotanza del potere ha raggiunto picchi di limpidezza mai pensati prima d’ora.

Tra un discorso che può apparire delirante di Trump – ma che delirante non è, anzi, si tratta di piena consapevolezza del proprio potere – e le strumentalizzazioni che il governo Meloni fa della faccenda “Hamas” – che ormai non regge più agli occhi dell’opinione pubblica – stiamo assistendo ad una vera e propria manifestazione della volontà dell’Impero di ridurre i cittadini di tutto il mondo in ginocchio.

 

Il diritto internazionale ferito, ignorato e sbeffeggiato ha palesato la totale inutilità di istituzioni come le Nazioni Unite, che non si sono dimostrate banalmente obsolete, ma hanno chiarito una volta per tutte chi sia il capo a cui rispondono. Durante la sessione di ascolto dei leader mondiali svoltasi in settembre, Trump si è concesso un discorso di un ora contro i quindici minuti spettanti al resto dei presenti. Discorso nel quale l’organizzazione stessa è stata ridicolizzata come mai prima di allora era avvenuto. Solo pochi giorni fa il Ministro delle Finanze israeliano Bezalel Smotrich ha affermato: «Il diritto internazionale non si applica agli ebrei. Questa è la differenza tra il popolo eletto e gli altri».

 

Come se questo non bastasse, il piano di pace proposto da Trump e accolto con favore da Netanyahu verrebbe affidato a Tony Blair, noto criminale di guerra ed ex Primo Ministro Britannico, strettamente legato al sionista Larry Ellison, CEO e proprietario di Oracle (società di software specializzata in tecnologie per la gestione di database, applicazioni cloud e infrastrutture). Wikileaks ha rivelato che dal 2021 ad oggi la fondazione di Ellison ha garantito al Tony Blair Istitute for Global Change (TBI) circa 345 milioni di dollari. L’istituto di Blair mira a sfruttare il database del sistema sanitario britannico (NHS) per creare una Data Library, ovvero un archivio unico dei dati. In un report del TBI si invitava il governo del Partito Laburista britannico a «contribuire a creare l’infrastruttura necessaria per liberare il valore dei dati del settore pubblico, insieme a quadri di riferimento per identificare e raccogliere nuove tipologie di dati per approfondimenti innovativi».

Intanto il governo del Regno Unito, guidato da Keir Starmer, ha annunciato ufficialmente l’introduzione del Digital ID UK, un sistema di identità digitale obbligatorio che sarà indispensabile per dimostrare il diritto al lavoro e, progressivamente, per accedere a una serie di servizi pubblici.

Ovviamente, le manifestazioni in piazza contro il Digital ID UK non si sono fatte attendere.

 

In data 6 ottobre Middle East Monitor ha dato notizia che, ancora una volta, Netanyahu ha rinnegato l’ultimo piano di negoziati per il “cessate il fuoco” proposto da Trump, cancellando il post che aveva pubblicato su X in cui esprimeva il suo consenso. Sì, perché lo scopo non è mai stato di liberare gli ostaggi israeliani in mano ad Hamas, quello era solo il pretesto per perpetrare impunemente il genocidio del popolo palestinese.

Il cessate il fuoco in vigore dal 10 ottobre 2025 è già stato violato diverse volte; Israele, infatti, ha continuato ad uccidere i palestinesi e a bombardare pesantemente il Libano.

Il 15 ottobre ha preso il via la restituzione degli ostaggi israeliani detenuti da Hamas e quella dei prigionieri palestinesi detenuti nelle carceri israeliane.

Tuttavia, anche se a molti consola pensarlo, la verità è che non si tratta certo di una vittoria per i palestinesi. Infatti, nonostante lo scrittore palestinese Nasser Abu Srour, detenuto da trentadue anni, sia stato liberato, Israele non gli ha risparmiato l’umiliazione dell’esilio immediato in Egitto.

Ancora, però, non basta. Israele ha restituito i cadaveri di alcuni suoi prigionieri palestinesi, come previsto dall’accordo, ma i corpi – le cui fotografie sono state diffuse sui social network – presentano segni evidenti di tortura. Legati, imbavagliati, bendati e torturati, i palestinesi arrestati e detenuti senza aver potuto beneficiare del diritto ad un giusto processo sono stati impiccati poi sommariamente.

Mentre noi assistiamo alla quella gigantesca farsa che è la Pace di Trump (per il quale stati come il Pakistan hanno chiesto la candidatura del presidente americano al Premio Nobel per la Pace), la propaganda occidentale mostra le immagini degli ostaggi israeliani che, in lacrime e in buona salute, si ricongiungono con i propri cari, ma non quelle dei detenuti palestinesi rilasciati. Questi uomini, talvolta incarcerati in condizioni disumane per anni, hanno inciso negli occhi lo shock delle torture fisiche e psicologiche lungamente subite.

Quella a cui stiamo assistendo non si può neanche lontanamente definire una vittoria, né per i palestinesi, né per chi manifesta e si prodiga per una giustizia che probabilmente non vedremo mai.

 

Durante la cinquantanovesima sessione del Consiglio per i diritti umani dell’ONU – tenutosi dal 16 giugno all’11 luglio 2025, il punto 7 dell’ordine del giorno ha trattato la “Situazione dei diritti umani in Palestina e negli altri territori arabi occupati”.

Dall’economia di occupazione all’economia del genocidio è un report a cura della Relatrice speciale Francesca Albanese sulla situazione dei diritti umani nei territori palestinesi occupati dal 1967.

«Questo rapporto indaga i meccanismi aziendali che sostengono il progetto coloniale israeliano di sfollamento e sostituzione dei palestinesi nei territori occupati. Mentre leader politici e governi si

sottraggono ai propri obblighi, troppe entità aziendali hanno tratto profitto dall’economia israeliana

basata sull’occupazione illegale, sull’apartheid e, ora, sul genocidio. La complicità denunciata da questo rapporto è solo la punta dell’iceberg; porvi fine non sarà possibile senza chiamare a rispondere il settore privato, compresi i suoi dirigenti. Il diritto internazionale riconosce diversi gradi di

responsabilità, ognuno dei quali richiede esame e rendicontazione, in particolare in questo caso, dove

sono in gioco l’autodeterminazione e l’esistenza stessa di un popolo. Questo è un passo necessario per porre fine al genocidio e smantellare il sistema globale che lo ha permesso.»

A seguito della pubblicazione di questo rapporto (che potete scaricare gratuitamente in lingua italiana o inglese sul sito web www.fattuale.com), Francesca Albanese è stata colpita da pesanti sanzioni finanziarie statunitensi che, come ha denunciato la relatrice ONU, le impediscono persino di aprire un conto in banca e che mettono a rischio di pena pecuniaria chiunque abbia a che fare con lei in qualsivoglia termini economici.

 

Nonostante gli sforzi di molti, spezzare l’asse USA-Israele sembra impossibile. Ma è davvero così?

 

La mia previsione per il futuro di Israele è tanto infausta quanto lo è il suo proseguo per il resto del mondo. Mi spiego meglio: è mia convinzione che, prima o dopo, arriverà il momento per gli Stati Uniti di abbandonare la nave del genocidio e tutti i cittadini israeliani. A quel punto, gli ebrei che vivono in Israele si troveranno a pagare in prima persona il prezzo di aver sostenuto un governo guidato da psicopatici assassini e potrebbe esserci una seconda Shoa, durante la quale in molti fuggiranno dalla tanto agognata Terra Promessa per dislocarsi in altri luoghi del mondo, come accade dopo il primo olocausto.

Ho maturato questa convinzione per due ragioni. In primo luogo, sono convinta che gli Stati Uniti riusciranno – grazie al governo-fantoccio di Al-Jolani in Siria e all’appoggio della Turchia – a mettere le mani sulle risorse economiche dell’area senza difficoltà e quindi Israele – usato e gettato via – risulterà più un impiccio che altro, data l’aggravarsi della sua sempre più difficile situazione sul piano internazionale.

La seconda ragione riguarda notizie come questa, riportata dall’Indipendente il 3 ottobre: «Israeli Colony in Salento è il nome di un progetto ideato dall’imprenditrice israeliana Orit Lev Marom, che starebbe cercando di mettere in atto attraverso la società immobiliare Coral 37, fondata appositamente “per aiutare gli investitori ad acquisire immobili di prim’ordine nella regione del Salento”. Il progetto è descritto come “una visione per una comunità agricola e turistica autosufficiente dove le famiglie israeliane possono stabilire case, coltivare il proprio cibo e sviluppare strutture educative e sanitarie condivise”. Insomma, la donna sarebbe promotrice di una vera e propria colonizzazione basata sull’acquisto di grandi appezzamenti di terreno con casolari e altri edifici».

 

Questo non deve stupire. Già nel dicembre 2023 anews scriveva: «La Repubblica Turca di Cipro del Nord (KKTC) sta assistendo a un aumento degli insediamenti ebraici che sollevano preoccupazioni per un potenziale “nuovo Israele” emergente sull’isola. Negli ultimi cinque anni, l’interesse straniero, soprattutto ebraico, per il settore edile di KKTC è cresciuto vertiginosamente. Si sostiene che decine di migliaia di ebrei provenienti da diverse nazioni, tra cui Iran, Regno Unito, Russia, Ucraina, Polonia e Israele, stiano effettuando investimenti sionisti, sollevando interrogativi sulla creazione di un nuovo Israele. Fonti di sicurezza segnalano la presenza di 2.000 aziende israeliane in KKTC, con indagini in corso che rivelano preoccupazioni circa le acquisizioni di terreni e gli sviluppi edilizi».

«Con una popolazione di 380.000 abitanti, gli osservatori sottolineano che 35.000 sono ebrei, affermando che “decine di migliaia di acri di terra nella parte settentrionale di Cipro vengono acquistati da intermediari legati a Israele. Israele sembra stia gradualmente prendendo il controllo del KKTC, applicando un modello palestinese”.»

 

A ottobre 2024 Il Centro per le Analisi Strategiche Internazionali (KEDIS) – greco – spiega che «Dall’inizio del 2010 i politici ciprioti hanno dichiarato lo stretto rapporto tra le due nazioni, conosciuto come “Fratellanza Israeliano-Cipriota” e definito Israele “il partner più affidabile di Cipro”. Un rapporto che è cresciuto, portando a un relativo silenzio politico riguardo alla guerra in corso a Gaza e alle violazioni israeliane in Cisgiordania, nonché alle recenti escalation in Libano. Nell’agosto del 2024, il Ministero della Difesa israeliano ha chiesto a Cipro (e alla Grecia) un potenziale supporto militare. L’uso di basi cipriote porterebbe tuttavia Cipro in una guerra che non può permettersi. Dopo essere stata direttamente minacciata da Hezbollah nel giugno di quest’anno, Cipro ha mantenuto la sua neutralità; tuttavia, il crescente numero di israeliani che si stabiliscono e acquistano proprietà a Cipro, insieme alle voci che circolano sull’isola secondo cui l’IDF starebbe tenendo d’occhio i porti ciprioti di Larnaca e Paphos per uso militare, forniscono un interessante paradosso. Ciò che sto suggerendo qui è che, sotto le mentite spoglie della sicurezza regionale e strategica nel Mediterraneo orientale, Cipro viene utilizzata in un ruolo simile a quello della Palestina nei primi anni Venti, quando ingenti investimenti in città costiere come Haifa portarono al controllo economico della Palestina.»

Si conclude sostenendo che «Ora Cipro si trova pericolosamente a camminare su una corda che potrebbe portare l’isola a essere trascinata in una guerra o, peggio ancora, potrebbe diventare soggetta al controllo economico israeliano, proprio come nelle prime fasi del colonialismo dei coloni in Palestina. Il recente Israel Business Summit a Nicosia accentua l’aumento dell’espansione israeliana nell’economia cipriota. (…) Israele ha individuato Cipro come la destinazione più probabile per il proprio capitale. (…) L’espansione israeliana della proprietà immobiliare e il potenziale dirottamento di fondi verso i porti potrebbero cedere il controllo parziale dell’isola a Israele, il che offre uno scenario minacciosamente simile alla loro espansione nei territori palestinesi nel corso dell’ultimo secolo.»

 

Diverse persone dinanzi alle mie previsioni relative al destino di Israele e del mondo hanno detto: «Impossibile!», come quando dicevo che nel giro di pochissimi anni le CBDC (central bank digital currency) di Stato sarebbero diventate realtà così velocemente che a mala pena ci saremmo accorti del mastodontico cambiamento che l’economia avrebbe subito.

Eppure, il 23 settembre 2025 la stampa ha riportato la notizia che l’impossibile sta per diventare possibile: «L’euro digitale sarà probabilmente disponibile per i consumatori dell’area euro a partire dal 2028, a condizione che la legislazione europea venga approvata e la Banca Centrale Europea (BCE) decida di emetterlo. La nuova moneta digitale sarà accessibile a cittadini, imprese e soggetti pubblici residenti o stabiliti temporaneamente o permanentemente in uno dei Paesi dell’area euro, nonché a visitatori temporanei e a chi aveva stabilito residenza nell’area. Sarà utilizzabile tramite portafogli digitali offerti da fornitori di servizi di pagamento autorizzati, con facilità d’uso anche offline.»

 

Così, alla fine di questa ecatombe che è il genocidio palestinese, delle rivolte nelle piazze, dell’ignavia dei governi, la Storia – come sempre – procederà spedita verso il futuro e quello che oggi viene considerato il 51 stato Americano, Israele, il backyard a stelle e strisce, potrebbe diventare il nostro vicino di casa. Un’invasione di erbacce che non potremo in alcun modo eradicare perché, ehi: sarebbe antisemitismo!


Contribuisci all’indipendenza di (F)ATTUALE


 
 

The web scarping to train every type of Artificial Interlligence is forbidden.

© (F)ATTUALE rivista | podcast by Alice Rondelli (2023)

bottom of page