top of page

iscriviti

Riceverai un aggiornamento quando viene pubblicato un nuovo articolo

INVIATO!

Buona notte, Mr. Stato!

  • Immagine del redattore: Alice Rondelli
    Alice Rondelli
  • 6 giorni fa
  • Tempo di lettura: 12 min

Aggiornamento: 17 ore fa

Molti pensano che lo Stato moderno debba la sua nascita ai popoli a scapito dei sovrani, ma si tratta di un falso storico. È stata la borghesia il vero datore di lavoro dello Stato, quindi non deve stupire che oggi l’istituzione sia a servizio del capitalismo. È necessario domandarsi se ha senso affidare allo Stato la gestione del welfare di una nazione, specie quando la nozione di “benessere” è tanto mutata nel corso del tempo.

"Perseo e Medusa" di Tutto e Niente, 2025.

Una delle questioni più dibattute, controverse e strumentalizzate degli ultimi anni riguarda il tema dell’assistenzialismo statale. Dovere o gentile concessione? Funzionale o disfuzionale? Strada praticabile o impercorribile? Insomma: sì o no?


Spiega il dizionario Treccani: «Nel linguaggio economico e politico (per lo più in tono polemico), l’assistenzialismo è un’accentuazione delle attività assistenziali della pubblica amministrazione (riguardo, per esempio, all’assistenza sanitaria, ad alcuni tipi di pensione, ai servizi sociali e soprattutto all’intervento statale di sostegno a enti e imprese prive di un’autonoma vitalità economica), ritenuta dispersiva di risorse e atta a deprimere lo spirito di intraprendenza, di rischio, di cambiamento, che dovrebbe caratterizzare i cittadini e i soggetti economici di un sistema dinamico e moderno».


Questa “accentuazione delle attività assistenziali” dello Stato è ritenuta “dispersiva di risorse e atta a reprimere lo spirito di intraprendenza” a detta di chi? Quali sono le fazioni che si arrovellano nel tentativo di forgiare la definizione di “assistenzialismo”?

Per rispondere a questi quesiti occorre partire dal principio.


Lo Stato Moderno, ovvero quello in cui viviamo, non coincide con l’inizio della modernità (XV-XVI secolo), ma si è formato attraverso un processo plurisecolare lento e assai diverso da un Paese e all’altro. Tuttavia, è stato tra il 1500 e il 1700 che esso ha cominciato ad irrobustirsi e dopo la Rivoluzione Francese hanno cominciato a svilupparsi maggiori somiglianze tra le formazioni statali europee.

Tra le caratteristiche principali dello Stato Moderno troviamo un primo tipo di amministrazione a scala statale sul piano finanziario, che riguarda la percezione delle tasse su scala nazionale. La cosiddetta Ragion di Stato si configura sia nei diritti del potere statale, che nei sacrifici che esso comportava da parte di tutti i membri. Insomma, lo Stato – incarnato inizialmente nel sovrano – progressivamente si propose come realtà suprema.

È in questo contesto di modernizzazione che nasce il lavoro sociale, allo scopo di rendere meno brutale e meno sofferto l’impatto con i nuovi “valori” che la nascente società industriale andava proponendo – come migrazioni interne, urbanesimo e mobilità sociale – e di contenere e ridurre le aree di marginalità reintegrando nel tessuto sociale quanti si trovavano ai margini.

L’Italia rappresenta una situazione atipica nel contesto europeo, in quanto frammentata in una molteplicità di Stati sino al 1861, data che ne sancisce la definitiva unità. L’economia continuò ad essere rurale sino al secondo dopoguerra (1945), in ritardo, dunque, sul processo di industrializzazione e modernizzazione del Paese, premessa determinante di un sistema assistenziale garantito dallo Stato.

Fu la Chiesa a detenere un prolungato monopolio sulle istituzioni assistenziali, ma continuò a permanere un sistema di “non assistenza” e di repressione, e l’intervento più organico fu quello di raggruppare tutte le istituzioni che accoglievano i poveri sotto l’amministrazione delle Congregazioni di carità, controllate dal Ministero degli Interni.


A quel tempo gli unici due modelli proposti in Europa erano la Poor Law inglese e il welfare Bismarckiano. Il modello inglese condizionava l’assistenza statale alla perdita di diritti civili e politici, emarginava i poveri nelle workhouse e, seppure li incoraggiasse a lavorare sodo per migliorare la loro condizione sociale, non ricompensava chi lavorava bene. Il modello tedesco, per contro, introdusse una prima forma di assicurazione sociale per i lavoratori dell’industria e per le loro famiglie, riguardante la malattia, l’invalidità e l’infortunio.

Sarà l’Italia fascista ad elaborare per la prima volta un sistema di assistenza e di previdenza sociale centralizzato attraverso la Carta del Lavoro del 1927, ma permasero le attività assistenziali della Chiesa.

Solo nel dopoguerra (tra gli anni Cinquanta e Sessanta) si delineò più chiaramente lo spaccato di Italia che possiamo vedere ancora oggi: al Nord il lavoro e un clima culturale e politico attento ai valori della Resistenza; al Sud un’agricoltura impoverita dal latifondo, in cui neanche la Riforma agraria del 1950, attraverso l’espropriazione e l’assegnazione di terreni ai coltivatori, riuscì ad interrompere l’abbandono delle campagne. Proprio per rendere meno sofferto l’esodo verso le città e per ridurre le aree di marginalità venne ad affermarsi la necessità di un intervento assistenziale garantito dallo Stato. Questo diede luogo alle prime forme di lavoro sociale.


Durate il convegno di Tremezzo del settembre 1946 (organizzato e patrocinato dal Ministero dell’assistenza post bellica) studiosi, esperti e pensatori – europei e italiani – finirono con l’affermare che l’assistenza era una responsabilità collettiva e come tale una funzione dello Stato, e non più mero soccorso al povero, né tantomeno uno strumento di superamento delle tensioni sociali.

Anche la Commissione Parlamentare di Inchiesta sulla miseria e sui mezzi per combatterla (attiva dal 1951 al 1953) mise in evidenza come in Italia gli interventi assistenziali fossero del tutto insufficienti e si riducessero a provvidenze escogitate di volta in volta, secondo la logica delle singole istituzioni.

Vent’anni dopo, nel 1970, Papa Paolo VI sciolse la Pontificia Opera Assistenza, ritenendone esaurita la sua funzione storica.

Da quel momento in poi, venne proposta una modalità d’intervento incentrata sul trattamento individuale del caso (case-work), ossia un modello che dava risalto alle dinamiche psicologiche e interpersonali e all’adattamento dell’individuo e all’ambiente sociale, che era considerato come un sistema chiuso con i suoi specifici problemi.

Il group-work, per contro, presuppone un lavoro non più incentrato sul singolo, ma sul gruppo, ed il servizio sociale venne eletto come il luogo dove i rapporti tra l’individuo e la comunità dovevano essere decodificati e orientati. Il lavoro di comunità impegnò gli assistenti sociali in un lavoro finalizzato all’organizzazione di azioni tese a raggiungere obbiettivi di cambiamento non solo personale, ma strutturale.

Cultura sociale e cultura politica, oggi, sembrano aver dimenticato che la costruzione di una società partecipata deve avvalersi di un metodo – la community organisation – attraverso il quale una popolazione consapevole dei propri diritti e potenzialità intraprende azioni conseguenti al perseguimento degli scopi prefissati. Per i Servizi Sociali e per gli operatori, tuttavia, essa rappresenta un complesso di difficoltà organizzative e di sovraccarico lavorativo.

Oggi la divisione in metodi (case-work e group-work) è da ritenersi superata, perché l’individuo è, sempre e comunque, un soggetto inserito in un contesto di relazioni, in un sistema familiare e sociale.   

Il Decreto Presidenziale della Repubblica (DPR) n. 616 del 24 luglio 1977 – che diede attuazione della delega di cui all’art. 1 della legge 22 luglio 1975, n. 382 – individuò il Comune come l’ente privilegiato per la gestione delle competenze sociali e sanitarie, comprese quelle della pletora degli enti assistenziali nazionali, disciolti dallo stesso decreto. All’art. 22, esso definisce le competenze sociali «inerenti a quelle attività che attengono al quadro della sicurezza sociale, alla predisposizione ed alla erogazione di servizi gratuiti o di prestazioni economiche, sia in denaro che in natura, a favore dei singoli o di gruppi, qualunque sia il titolo in base al quale sono individuati».

Dunque, alla fine degli anni Settanta venne inaugurata la stagione della razionalizzazione e della trasformazione degli assetti istituzionali, che vide l’attenzione spostarsi al territorio quale spazio di vita, di relazioni significative e di socialità partecipata.


Nel 2023, in Italia, la spesa per la protezione sociale è stata pari al 29% del Pil nazionale. Tuttavia, la spesa dei Comuni per i servizi sociali – al netto del contributo degli utenti e del Servizio Sanitario Nazionale – ammontava ad appena il 13,5%. Questo perché la stragrande maggioranza dei fondi stanziati per il sociale vengono assorbiti in primis dal Sistema Sanitario Nazionale e, successivamente, dalle pensioni e dalla malattia.

Nel 2024 lo stato italiano ha registrato un aumento delle entrate tributarie, che sono arrivate a 380,3 miliardi di euro (23,3 miliardi in più rispetto al periodo gennaio-agosto 2023); ma nello stesso anno la spesa pubblica italiana per il welfare è stata di 1.108,4 miliardi di euro, pari al 50,6% del PIL.

I numeri, come si può vedere, evidenziano l’insostenibilità della spesa pubblica riguardante il welfare.


Molti politici e commentatori criticano e disprezzano il sistema di welfare dello Stato italiano, sostenendo che si tratti di un modello improntato allo spreco di risorse economiche, nonché superato, ignorando le condizioni in cui versavano i cittadini italiani prima che quel sistema fosse inventato.


Una domanda sorge spontanea: cos’altro giustifica l’esistenza dello Stato se non la necessità di allocare le risorse economiche prodotte dai cittadini (ovvero, le tasse) per sostenere gli stessi nei loro bisogni lavorativi, medici e sociali?


Il problema, a ben vedere, non sono le spese da sostenere bensì l’utilizzo, appunto, del gettito fiscale.

«Che scoperta!», penserete voi a questo punto. Ma la riflessione che va fatta riguarda proprio il modo in cui i nostri governanti decidono di allocare le risorse. Davvero non esiste una maniera efficiente di gestire l’assistenzialismo, oppure semplicemente coloro i quali sono chiamati a farlo non possiedono le adeguate competenze per trovare una soluzione al problema? Non sono essi stessi, quindi, il problema?

Se un metodo scientifico si rivela inefficace ad un caso specifico, non è forse lo scienziato a doverne trovare uno più adeguato? Appare così ovvio, eppure – querelle tra politici di Destra e di Sinistra a parte – l’unica soluzione che viene paventata è la privatizzazione dei servizi. E allora occorre andare ad indagare su quali sono le conseguenze di tale scelta. Per scoprirlo, non serve far altro che analizzare una delle Nazioni in cui il welfare è privato. Il modello di riferimento che qui voglio analizzare sono, ça va sans dire, gli Stati Uniti d’America.


Secondo il rapporto annuale del Department of Housing and Urban Development, che misura il numero di senzatetto negli Stati Uniti in una sola notte ogni inverno, circa 23 americani su 10.000 – ovvero 771.480 persone – hanno vissuto situazioni di senzatetto a gennaio 2024. Certo, considerando che la popolazione americana ammonta a 340,1 milioni di persone, la cifra sopracitata non appare poi così alta; tuttavia, c’è una domanda che bisogna porsi: quanto è facile per un cittadino non riuscire a sopportare le spese e finire per strada? La risposta è: sempre più facile. Si tratta di un aumento del 18% rispetto allo stesso rapporto del 2023. Un aumento simile nel giro di un solo anno è a dir poco sconvolgente. Un homeless non solo non può permettersi un’abitazione in cui vivere, ma non ha un lavoro e, di conseguenza, non è provvisto di assicurazione sanitaria. Quindi, un senza tetto non è solo una persona senza fissa dimora, ma un soggetto che non beneficia di nessun tipo di tutela alla propria esistenza.

Ad aprile 2025 l’ONU ha lanciato l’allarme riguardo i diritti delle persone con disabilità per l’estendersi dei casi di persone che chiedono allo Stato canadese di morire perché non possono curarsi adeguatamente. Belgio e Olanda sono stati i primi due Paesi, nel 2002, a offrire questa possibilità ai propri cittadini.

I report ufficiali sui dati del 2024 mostrano che in Belgio i casi di eutanasia sono aumentati in un solo anno del 16,6% e in Olanda sono vicini alla soglia dei 10mila (su 169mila decessi). E ora c’è il caso del Canada. La legge sulla Maid (Medical assistance in Dying), in vigore a livello federale dal 2016, è stata infatti modificata per includere sempre nuove fattispecie, sino al punto critico del varo nel 2021 della misura nota come “Track 2”, atta a svincolare l’eutanasia dalla condizione di terminalità e dunque aprirla a chiunque ne faccia richiesta. Nel 2023 hanno fatto ricorso alla Maid 15.323 persone in tutto il Canada, pari al 4,7% dei casi di morte. Sul totale delle morti volontarie nel sistema di Maid, i decessi per Track 2 sono già al 4%, pari a oltre 600 casi di persone morte volontariamente con l’aiuto dello Stato senza alcuna vera motivazione sanitaria.

Ambiguo, non è vero? Perché se da una parte è giusto che un individuo possa disporre della propria vita come meglio crede, dall’altro non possiamo esimerci dal domandarci se gli Stati non pensino di poter approfittare di questa nuova tendenza per liberarsi di coloro i quali sono percepiti come un peso, appunto, per il welfare della nazione.


Sul giornale francese Le Figaro, il 31 marzo 2025 compare un’intervista al giurista francese Yves-Marie Doublet autore, con Pascale Favre, di un recente rapporto sul fine vita pubblicato a gennaio di quest’anno dalla Fondazione per l’innovazione politica.

Les non-dits économiques et sociaux du débat sur la fin de la vie, questo il titolo della pubblicazione che intende illuminare le aree in ombra in tema di morte medicalmente assistita e l’attenzione è puntata sugli aspetti economici e sociali che volutamente sono tenuti nascosti da chi vorrebbe promuovere l’aiuto attivo a morire.


Una logique inédite (logica inedita) guiderebbe, secondo gli autori, la negazione delle verità più scomode. Il rapporto sottolinea come «il peggiorare delle finanze pubbliche e del sistema sanitario rischia di favorire il ricorso all’eutanasia a scapito della cura», soprattutto di quella palliativa. Molti aspetti citati sembrano calzare perfettamente anche per la realtà italiana: il difficile accesso dei pazienti e delle famiglie alle cure di base con la progressiva diminuzione del numero dei medici di famiglia, i mesi di attesa che si prospettano per prestazioni specialistiche erogate dal Sistema sanitario nazionale, la scarsa presa in carico dei malati più anziani, gli spaventosi deficit dei servizi di psichiatria e un sistema di cure palliative ancora deficitario.

A fronte di tutto ciò, scrive Doublet, «quella che viene presentata come una scelta per i più forti potrebbe trasformarsi in un incitamento per i più deboli», un incitamento a farsi da parte.


Sul tema, leggi | scarica uno dei racconti contenuti nella mia raccolta: "Quill".



Il dilemma che qui si propone è lo stesso che affligge la società moderna ormai da decenni: le fasce della popolazione considerate più deboli (ovvero i minori, gli anziani, le persone con disabilità, le persone con disturbi psichici e le persone in condizioni di svantaggio sociale) devo essere tutelate dallo Stato sempre e comunque?

Una risposta ci arriva da Lezioni di politica sociale di Luigi Einaudi. Il politico, economista e giornalista italiano riguardo ad un’eventuale “pensione universale di Stato”, scrive nel 1944: «Essa darebbe ai giovani la possibilità di aspettare il momento migliore per entrare nella vita lavorativa: Oggi, il figlio del povero, del lavoratore, dell’impiegato semplice deve addirsi al lavoro, non appena trascorsa l’età fino al termine della quale le leggi del Paese impongono la frequenza obbligatoria alla scuola elementare o vietano l’entrata in fabbrica. Sia vera oppure no la ragione della miseria addotta dei genitori (…) il risultato è il medesimo: il giovane povero di questi casi entra nella vita privo di cultura generale e di tirocinio tecnico (…). Se non a tutti, se non ai più tenaci ed intraprendenti e intelligenti, la necessità del lavoro quotidiano immediato vieta a molti di trarre partito dalle qualità creatrici e inventive organizzatrici che essi possono avere in sé. Quante invenzioni, quanti progressi tecnici rimangono soffocati in germe dal grigiore della fabbrica quotidiana, che dopo qualche anno trasforma il giovane pieno di speranze in uomo maturo rassegnato e sfiduciato!»


Sono passati più di ottant’anni dall’argomentazione favorevole di Einaudi a quello che oggi chiameremmo “reddito universale”, eppure questa riflessione – per l’epoca assolutamente all’avanguardia e visionaria – risulta ancora attuale e sostanziale. Tuttavia, è bene sottolineare che lo stesso autore portò anche un paio di argomentazioni a sfavore, tra le quali figura la natura umana, che viene definita come «siffattamente impervia all’allettativa del vivere (…) senza lavorare».


Ma è davvero così semplice? La tesi che si oppone al reddito universale può essere semplificata con un banale «la gente non ha voglia di lavorare»?

Il celebre psicanalista e psichiatra Jacques Lacan (1901-1981) analizza il lavoro in relazione alla struttura inconscia del soggetto, sottolineando l’importanza del significante e del discorso dell’Altro. Il lavoro, secondo Lacan, non è semplicemente un’attività fisica, ma una forma di produzione di senso, che si inserisce nel discorso simbolico e influenza la costituzione del soggetto.

Qual è per le persone, oggi, il senso della produzione attraverso il lavoro, se non il denaro? Come si può pensare che un individuo possa costruire la sua soggettività su un principio vuoto come il denaro?

Mi spiego meglio. Un tempo il contadino coltivava il suo campo per provvedere alla sopravvivenza sua e della sua famiglia, e vendeva il surplus; ergo: aveva una connessione diretta e molto profonda con il proprio mestiere. Oggi, in un’economia che gira attorno al terziario (unico settore in grado di produrre la ricchezza necessaria perché un individuo possa permettersi di sostenere i costi esorbitanti della vita in città), il lavoratore non ha alcun legame con la ricchezza che produce per altri, ovvero il datore di lavoro (che sempre più spesso coincide non con una persona, ma con una multinazionale). Dato questo per assodato, come si può pretendere che le persone sviluppino un’affezione al lavoro o che non preferiscano sopravvivere senza lavorare? Dov’è la soddisfazione del produrre? Si lavora per ricevere uno stipendio in denaro, fine della storia. Non c’è nessuna connessione tra il proprio Io e la mansione che si svolge. Questo lo sappiamo tutti, basta essere onesti con sé stessi e osservare gli altri per capire che il mondo del lavoro oggi non offre, nella stragrande maggioranza dei casi, alcuna soddisfazione personale.

Detto ciò appare chiaro, ancora una volta, che il problema non siano gli individui, ma il sistema capitalistico all’interno del quale sono costretti a muoversi, vivere e produrre una ricchezza, dovendo anche scontrarsi con dilemmi di tipo morale quando il padrone è qualcuno che sfrutta il lavatore salariato per i suoi interessi; oppure quando si lavora per una grande azienda che non rispetta l’ambiente, solo per dirne una.

Seppure lo Stato sia nato con l’obbiettivo di individuare il sistema migliore per i cittadini e farlo funzionare adeguatamente, ciò che appare lapalissiano è che esso, in verità, non si occupa d’altro che di mantenere lo status quo invariato, avvantaggiando in qualunque modo possibile – anche eticamente discutibile – il capitalismo e scoraggiando la nascita di qualunque altro sistema.


Si può semplificare immaginando uno scenario in cui si fa strage di esseri umani che, feriti e accasciati al suolo, si trascinando allungando una mano bisognosa verso il proprio carnefice. Il killer è il capitalismo e stringe in mano un coltellaccio affilatissimo: lo Stato.


Nel suo libro Buona notte, signor Lenin, Tiziano Terzani scriveva: «Spesso basta avere un filo da seguire per capire il mondo». In questo caso il filo da seguire è proprio l’evoluzione dell’assistenzialismo, che sta chiaramente andando in direzione di una privatizzazione, con una forte spinta alla sottoscrizione di assicurazioni sanitarie private. Ne è un esempio la recente pratica di appaltare a imprese private l’assicurazione sanitaria dei lavoratori. Molti dipendenti pubblici, per esempio, non sanno che ogni mese parte delle loro tasse vanno a finire nelle casse di un’assicurazione che permette loro di accedere a servizi sanitari privati (secondo un sistema di efficienza dubbia). In questo caso, il datore di lavoro è lo Stato. Vedete allora che cosa succede? Le tasse dei cittadini non vengono utilizzare per il rafforzamento del sistema sanitario nazionale, bensì per favorire il capitalismo.

Ecco il filo di cui parlava Terzani. Un filo che ci strozzerà tutti.



 Contribuisci all’indipendenza di (F)ATTUALE


 

 

 

 

 
 

The web scarping to train every type of Artificial Interlligence is forbidden.

© (F)ATTUALE rivista | podcast by Alice Rondelli (2023)

bottom of page