Il leader indiano Ambedkar e il filosofo americano Dewey puntavano tutto sull’evoluzione pragmatica della socialdemocrazia. In Italia, però, la politica dovrebbe guardare ai valori rivoluzionari socialisti.
Nel suo ultimo libro The Evolution of Pragmatism in India: Ambedkar, Dewey, and the Rhetoric of Reconstruction (2023) il filosofo e studioso di retorica Scott R. Stroud analizza la figura di Bhimrao Ambedkar – nato nel 1891 e deceduto nel 1956 – considerato l’architetto della costituzione indiana negli anni ’40, nonché il leader degli “intoccabili” (che egli chiama “dalit”) dell’India, oppressi dal complesso e radicato sistema di caste. Lui stesso era un intoccabile, il che ha rafforzato il suo impegno a cercare giustizia nella legge e nelle riforme sociali per le popolazioni più vulnerabili dell’India. Egli ha incanalato la sua frustrazione per la coscienza di casta, prevalente all’interno della società indù, cercando di convincere i suoi compagni dalit a convertirsi dall’induismo e ad un buddismo più egualitario. Il 14 ottobre 1956, poche settimane prima di morire, guidò quella che all’epoca fu una delle più grandi conversioni di massa volontarie del mondo. Questo evento, tenutosi a Nagpur, ha visto Ambedkar, sua moglie Savita e circa 500.000 dalit convertirsi al buddismo.
Secondo Stroud, Ambedkar non era semplicemente un leader, era anche un filosofo. Nell’opera Il Buddha e il suo Dhamma ha ricostruito la narrazione del Buddha de-enfatizzando alcune formule tradizionali – come le quattro nobili verità – e mettendo in primo piano la povertà, l’ingiustizia e la costruzione di comunità sociali. In sostanza, ha ricostruito la tradizione buddista e la sua miriade di testi perché potessero fungere da “vangelo sociale”: una filosofia in grado di andare incontro alle ondate crescenti di coloro che si ispiravano a Karl Marx e al comunismo russo degli anni ‘50.
Nel 1913, alla Columbia University, Ambekar si trovò a contatto con intellettuali progressisti unici nel loro genere, decisi a usare la ricerca accademica per cambiare in meglio le società e lì conobbe il filosofo più straordinario dell’epoca: l’americano John Dewey. I corsi di Dewey fornirono al giovane Ambedkar una potente panoramica del pragmatismo – corrente filosofica fondata sulla connessione fra conoscenza e azione, che insiste sulla funzione del pensiero come produttore di credenze da sottoporre al vaglio dell’esperienza e della prassi – donandogli la capacità di riferirsi a un pubblico intellettuale tanto quanto a uno generale. La relazione intellettuale tra Dewey e Ambedkar ha esteso la tradizione pluralistica del pragmatismo, adattandola alle preoccupazioni della democrazia riguardo le divisioni sociali. Nell’opera Democracy and Education del 1916, Dewey pone l’accento sulla convinzione che la democrazia sia uno stile di vita che si forma e si trasforma attraverso la libertà e la crescita delle persone ed individua nell’istruzione il mezzo per realizzarla. Per Dewey, infatti, l’istruzione può cambiare la società, può renderla migliore, ma essa deve tenere conto di un fattore predominante: l’economia. Un tipo di economia che non è foriera di progresso per tutti genera differenze e distanze difficili da colmare, e vincola il valore naturale dell’industrializzazione al mercato. Stroud, sottolinea che secondo Dewey il potere della nostra ragione non è di matrice divina, ma proviene da e torna a corsi di esperienza che richiedono la nostra attenzione e il nostro impegno per ricostruirli; proprio per questo la sua filosofia coincide con il suo lavoro sull’istruzione e la pedagogia, e vede il potere nella nostra capacità di cambiare in modo intelligente le nostre abitudini per adattarci al meglio all’ambiente sociale e naturale in cui viviamo.
Il pragmatismo di Ambedkar si è sviluppato in reazione al pensiero di Dewey, che lo ha ispirato a costruire una visione di sistemi sociali democratici che consentissero agli individui di avere importanza. Come ricorda Stroud, Ambedkar non ha copiato gli insegnamenti di Dewey alla cieca, ma li ha trasformati in una fonte di motivazione e, in senso metodologico, ha compreso il valore della ricostruzione. Ambedkar, infatti, si trovò a dover fronteggiare le pretese di atemporalità e certezza divina della tradizione Sanātana (l’insieme di doveri assoluti e pratiche ordinate religiosamente che incombono su tutti gli indù) derivante dagli antichi Veda. Egli vedeva questa stessa tradizione come la sottoscrizione dei costumi di casta che avevano diviso la società indiana e oppresso individui come lui per migliaia di anni. Per Ambedkar, così come per Dewey, la società funziona al meglio quando offre libertà e opportunità a ciascun individuo di svilupparsi come membro prezioso di una comunità. Entrambi avevano riconosciuto la democrazia come la filosofia che facilita l’evoluzione di ogni persona oltre le restrizioni di classe e l’idea che le comunità contino sia nella scienza che nell’etica, perché essa non è solamente un modo formale di prendere decisioni tra i funzionari eletti, ma una modalità di vita associata, di esperienza comunicata congiunta: un atteggiamento di rispetto e riverenza verso il prossimo. Tutto ciò converge nell’idea centrale che la socialdemocrazia sia un ideale da realizzare prima di tutto nella nostra esperienza quotidiana.
Come spiega Stroud, Dewey sosteneva che ideali e valori morali dovessero provenire da un contesto storico o comunitario ed era, perciò, riluttante a fare appello a fonti di certezza trascendentale, come Dio o la pura ragione, per sistemare le cose. Ambedkar apprezzava questa intuizione, ma i problemi dell’India erano intrinsecamente connessi a una millenaria stratificazione delle sue comunità in una gerarchia di classi basata sul valore di un individuo alla nascita. Egli non poteva fare appello alle certezze morali per contrastare le “verità divine”, quindi il suo approccio pragmatico fece appello a valori quali libertà, uguaglianza e fraternità, ed egli compì lo sforzo di tradurre questi termini in concetti buddisti. La filosofia anti-casta di Ambedkar è, a tutti gli effetti, un’evoluzione della socialdemocrazia che ha portato a nuove intuizioni sui problemi dell’oppressione e della divisione.
In Italia, già nel 1922 l’ala socialdemocratica del movimento operaio italiano, guidata da Matteotti, aveva dato vita al Partito socialista unitario (PSU), il quale si riunificò con il Partito socialista italiano (PSI) nel 1930; poi, nel secondo dopoguerra, la componente socialdemocratica, inizialmente cofondatrice del PSIUP (Partito socialista italiano di unità proletaria, guidato da Nenni e Saragat), non condividendo la politica di stretta unità coi comunisti, decise di abbandonare il partito e nel gennaio 1947 nacque il Partito socialista dei lavoratori italiani (PSLI), con a capo Saragat, che nel ’48 entrava come vicepresidente del Consiglio nel governo guidato dal democristiano De Gasperi. Cominciò allora la lunga stagione del centrismo, durante la quale il PSLI partecipò a tutti i governi diretti dalla Democrazia Cristiana, partito interclassista e popolare nato nel 1942, la cui matrice cattolica si accompagnava a una visione della politica sostanzialmente laica che si configurò subito come forza di governo e di centro, costruendo la propria base soprattutto tra le masse contadine, i ceti medi e la borghesia imprenditoriale, mentre sul terreno ideologico si pose come forza avversa a ritorni reazionari e alla minaccia totalitaria del comunismo.
Tuttavia, se il socialismo tendente a una trasformazione della società finalizzata a ridurre le disuguaglianze fra i cittadini sul piano sociale, economico e giuridico, la socialdemocrazia dal canto suo ha cercato di umanizzare il capitalismo e di creare le condizioni perché esso porti a maggiori risultati democratici, egualitari e solidaristici, rifiutando perciò le teorie rivoluzionarie proprie del comunismo. All’interno del Partito socialista Italiano convivevano due anime: una tendente a una maggiore coesione con il Partito comunista italiano e un’altra decisa a perseguire una politica di riforme progressive sulla scia dei partiti della socialdemocrazia europea, dopo un lungo periodo di centrismo; alla fine, le scissioni interne condussero nel 1969 a una separazione della componente socialista da quella socialdemocratica che, però, nel 1992 vennero entrambe – insieme alla DC – coinvolte negli scaldali legati alla P2, all’inchiesta giudiziaria Mani Pulite e a Tangentopoli. Da quel momento in poi nulla sarebbe più stato come prima e a partire dal ’92, gli ideali socialisti sono stati sfruttati da tutti i partiti politici a mero scopo propagandistico.
Difficile dire chi, oggi, in Italia si occupi effettivamente di portare avanti quella socialdemocrazia pragmatista della quale parlavano Ambedkar e Dewey. Il Documento di Economia e Finanza (DEF) emesso ed approvato il 6 aprile 2022 ha delineato il progressivo taglio nei finanziamenti all’istruzione, destinata ad occupare un posto ancora più marginale all’interno della ripartizione spese calcolate a livello percentuale sul PIL. Le previsioni di spesa per i prossimi decenni sono impietose: nel 2020 la spesa per l’istruzione è stata pari al 4% del totale, ma scenderà al 3,5% nel 2025 per mantenersi intorno al 3,4-3,5 %. Questa pratica ha preso il via con il primo governo Berlusconi nel 1994 e ad oggi la tendenza non si è mai invertita.
Secondo il rapporto Oxfam 2023 sulla disuguaglianza globale, nel biennio 2020-2021 l’1% più ricco della Terra si è accaparrato quasi 2/3 della nuova ricchezza generata. Le principali novantacinque multinazionali dell’energia e dell’agro-business hanno più che raddoppiato i profitti rispetto alla media del periodo 2018-2020: mentre queste ultime si arricchivano, col commercio di beni e prodotti alimentari e distribuivano, grazie agli extra-profitti, dividendi pari a 257 miliardi di dollari ai propri azionisti, 800 milioni di persone soffrivano la fame. Dunque, oggi più che mai occorre che la politica guardi alla filosofia di Dewey come strumento per rimodellare la società, ricostruendo dinamiche sociali ed economiche improntate alla riscoperta degli ideali socialisti, perché è evidente che la socialdemocrazia ha fallito nei suoi intenti. Allo stesso modo, è necessario gettare uno sguardo al sistema di caste all’interno del quale Ambedkar ha sviluppato le sue teorie, perché le stesse disparità sociali, seppure non per nascita, sono presenti nel nostro “mondo”, molto più di quanto ci piaccia ammettere.
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