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Immagine del redattoreAlice Rondelli

Prigioni

Il 5 maggio 2023, in occasione dell’imminente incoronazione di Re Charles III, Julian Assange ha rotto il silenzio dalla prigione di Belmarsh. In una lettera indirizzata al nuovo sovrano del Commonwealth – pubblicata da Declassified UK – il giornalista e fondatore di Wikileaks ha invitato sua maestà a fare visita a quello che è considerato il carcere più duro del Regno Unito.
h. Tuol Sleng Genocide Museum, Cambogia, 2018 (Alice Rondelli)

Il 5 maggio 2023, in occasione dell’imminente incoronazione di Re Charles III, il prigioniero politico A9379AY, detenuto nella prigione di Belmarsh dal 2019, ha rotto il silenzio. In una lettera indirizzata al nuovo sovrano del Commonwealth – pubblicata da Declassified UK – il giornalista e fondatore di Wikileaks, Julian Assange, ha inviato sua maestà a fare visita a quello che è considerato il carcere più duro del Regno Unito. La HM Prison Belmarsh è un penitenziario maschile di categoria A ad alta sicurezza, nel quale vengono rinchiuse persone «la cui fuga sarebbe altamente pericolosa per la sicurezza pubblica o nazionale. I reati che possono comportare la reclusione in questo tipo di strutture includono: l’omicidio, lo stupro, la violenza sessuale, la rapina a mano armata, il ferimento intenzionale, il rapimento, l’importazione di droghe, il possesso di esplosivi, i reati connessi al terrorismo e quelli ai sensi della legge sul segreto d’ufficio. Accusato di spionaggio dal governo degli Stati Uniti, Assange vive nelle disumane condizioni che lui stesso descrive nella sua missiva al re.

Alla Belmarsh, i detenuti sono costretti a consumare il proprio pasto da due sterline nella solitudine della loro cella; ad ingurgitare quotidianamente numerosi psicofarmaci; ad essere curati con un sistema che, con un eloquente gioco di parole, Assange definisce Hellcare; a subire l’insensato divieto del gioco degli scacchi (seppure la dama, invece, sia consentita); e, infine, a vivere guancia a guancia con i topi, tra le grida disperate degli altri prigionieri. La parte più toccante di questa lettera, infatti, riguarda proprio la sofferenza dei detenuti. In proposito, Assange fa riferimento a Manoel Santos, un omosessuale che rischiava la deportazione nel Brasile di Bolsonaro e che, per questo motivo si tolse la vita («a soli otto metri dalla mia cella», scrive il giornalista) nel novembre 2020, usando una corda ricavata dalle sue stesse lenzuola.

Antigone, l’associazione italiana per i diritti e le garanzie nel sistema penale nata alla fine degli anni ’80, nel suo XVIII rapporto sulle condizione di detenzione (pubblicato nel 2022) spiega così le carceri ad alta sicurezza: «Il 41 bis, detto anche “carcere duro”, consiste in un catalogo di limitazioni volte a ridurre la frequenza dei contatti con l’esterno degli esponenti di vertice delle organizzazioni criminali, per evitare che continuino a comandare dal carcere. Si tratta di uno strumento che mira a isolare la persona dal resto dell’organizzazione criminale, ma vista la rigidità del suo contenuto è evidente che assuma anche un significato repressivo-punitivo ulteriore rispetto allo status di privazione della libertà. Un regime detentivo che si definisce “duro”, non può non evocare l’idea di un sistema intransigente che mira a far crollare (anche sul piano psicofisico) chi vi viene sottoposto, puntando alla collaborazione con la giustizia».

Eppure, come nel caso di Julian Assange, anche per quanto riguarda Alfredo Cospito (anarchico italiano condannato a quasi dieci anni di reclusione per la gambizzazione di un dirigente della Ansaldo Nucleare) non si comprende la necessità di reclusione in un carcere di massima sicurezza. Queste detenzioni hanno il sapore della vendetta e del monito, sembrano dire: «Ecco cosa accade a chi si schiera contro lo Stato! Voi altri non fatelo!».

Insomma: bisogna restare nello schema. Ma qual è lo schema?

Il documentario “Magnifiche sorti e progressive” (presentato nel 2021 al Festival di Ischia) è un’esplorazione visiva e mentale ed una provocazione politica e sociale, nella quale Renato Curcio (socio-analista, cofondatore delle Brigate Rosse e prigioniero nelle carceri italiane per più di vent’anni) esplora l’isola di Santo Stefano e L’Ergastolo – carcere panottico ora completamente abbandonato – analizzando le analogie tra le istituzioni totali e la Rete. Il Panopticon (o panottico) è un carcere ideato nel 1791 dal filosofo e giurista Jeremy Bentham, nel quale lo scopo della progettazione è quello di permettere a un unico sorvegliante di osservare tutti i soggetti di una istituzione carceraria, senza permettere a questi di capire se siano in quel momento controllati o no. L’idea del panopticon, come metafora di un potere invisibile, ha ispirato pensatori e filosofi come Michel Foucault, Noam Chomsky, Zygmunt Bauman e lo scrittore britannico George Orwell.

Renato Curcio sostiene che possiamo immaginare anche Internet come una prigione. I nostri account sui social network, infatti, ricordano molto le celle carcerarie del panottico, nelle quali al detenuto sembra di avere una visione completa sulla realtà, mentre invece si tratta solo di uno scorcio offerto dagli algoritmi che sono, in tutto e per tutto, dei sorveglianti. Vigilano sui nostri gusti, sulle nostre reazioni e sui nostri contatti. Se chi si trova al 41bis non può che mangiare ciò che passa la mensa, è costretto a tenere le proprie emozioni sotto controllo con i farmaci e si vede preclusi i contatti sociali, in egual modo gli utenti dei social sono portati a consumare un certo tipo di prodotto, a reagire a un certo tipo di stimolo (come vediamo accadere nel caso delle shitstorm, per esempio) e a creare contatti con determinati personaggi e aziende. Il metaverso, dal canto suo, sembra offrici una libertà ancora più ampia nella quale muoverci, invece renderà ancora più stretta la cella della prigione digitale nella quale la maggior parte della gente è già reclusa.

Se nel panottico il trucco è quello di non far capire al recluso di essere costantemente sorvegliato, allo stesso modo gli utenti di internet vedono quello che l’algoritmo decide che debbano vedere e arriva a nascondere, e spesso persino censurare, ciò che ritiene sconveniente.

Insomma, si può dire che la realtà sia davvero una “questione di punti di vista”. Allora forse, converrebbe ogni tanto cambiare la prospettiva dalla quale osserviamo ciò che ci circonda e che, come scrisse Silvio Pellico, «una diffidenza moderata può essere savia». Se è vero che internet è stato creato per consentirci di arrivare più lontano di quanto ci possa portare il nostro corpo, è altrettanto vero che lo scopo di una rete è quello di catturare e trattenere.


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