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INTERVISTA - Comprendere il Medioriente

Immagine del redattore: Alice RondelliAlice Rondelli
Una riflessione sul Medioriente ieri e oggi visto dagli occhi di Anna Prouse, esperta di ricostruzione e sviluppo delle nazioni che ha lavorato per otto anni in Iraq in seguito alla caduta del regime di Saddam Hussein, in Somalia, Siria, Libia, Yemen, Mozambico e altri Paesi afflitti da guerre o da tumulti interni.

Anna Prouse è una scrittrice, diplomatica, giornalista e Cavaliere al merito della Repubblica Italiana. Ha lavorato come Delegata della Croce Rossa Internazionale e consulente per il governo italiano e americano in Iraq; esperta di antiterrorismo, relazioni internazionali, ricostruzione e sviluppo delle identità nazionali.

Il suo ultimo libro, intitolato Della mia guerra, della mia pace (edito da HarperCollins) racconta, tra le altre cose, la sua incredibile esperienza in un Iraq dilaniato dai conflitti interni a seguito dell’invasione americana avvenuta tra il 20 marzo e il primo maggio 2003.

Su Audible.it potete ascoltare il podcast di Pablo Trincia Le guerre di Anna e Touring Editore ha pubblicato nel 2004 il libro Un’italiana in Iraq – Mesi di guerra e di ricostruzione.

 

 

Ho contattato Anna via e-mail nell’estate del 2024 e mentre ero in vacanza a Creta abbiamo avuto una conversazione telefonica interessante. Come tutte le persone di grande carisma ed esperienza, Anna Prouse può mettere in soggezione il suo interlocutore ed io, lo ammetto, ero intimorita all’idea che le nostre opinioni in merito alla questione Mediorientale potessero divergere in maniera inconciliabile. Tuttavia è bastata una sola frase a farmi capire che, per quanto le nostre convinzioni avessero potuto differire, il nostro “sentire” ci avrebbe consentito di avere un confronto costruttivo.

«Chi lo ha stabilito che tutte le donne islamiche vengano obbligate ad indossare il velo, anziché volerlo indossare?», mi ha detto.

Anna è così: non si mette al centro delle questioni, Anna mette gli altri al centro.

Anna sa che per formarsi un’opinione circa una faccenda bisogna prima ascoltare l’altro, conoscere, approfondire, scavare, dubitare. In un attimo ho avuto la certezza granitica che ascoltare il suo punto di vista, formatosi durante i lunghi anni che ha trascorso a lavorare alacremente per diversi popoli in giro per il mondo, mi avrebbe permesso di espandere la mia visione e di mettere in discussione le mie certezze.

Si può non essere d’accordo con le opinioni di Anna Prouse, certo. Quello che assolutamente non si può fare è non rimanere affascinati dalla sua capacità di indagare la questione Mediorientale con profondità e uno spessore, oggigiorno, rarissimi.

Quando, questo autunno, in un piovoso pomeriggio milanese ci siamo incontrate in un bar per realizzare l’intervista che vi accingete a leggere, non sapevo cosa aspettarmi. La curiosità di interfacciarmi con questa donna dalle mille vite e dal coraggio sbalorditivo mi ha spinta ad abbandonare ogni pregiudizio, ogni preconcetto. Una scelta che si è rivelata felice e feconda.

Sono grata ad Anna di aver voluto condividere con me le sue esperienze, le sue percezioni e la sua visione. Opportunità simili non capitano spesso nella vita.

Spero che le sue parole possano essere spunto di riflessione e fonte ti ispirazione anche per il lettore.

 

 

INTERVISTA  

 

D. Medioriente ieri – quando hai dovuto affrontare grandi sfide come straniera e come donna in una posizione di potere – e Medioriente oggi: che differenze noti?

 

R. Non credo ci siano grosse differenze tra ieri e oggi. Ovviamente, in questo momento storico se ne parla di più perché siamo nel caos totale. Bisogna avere pazienza con il Medioriente, come per il resto del mondo: bisogna immergercisi, perché è ricco di storia; va preso con le pinze, va capito… Tutte cose che noi fatichiamo a fare perché abbiamo fretta di risolvere tutto immediatamente, vogliamo andarci e concludere tutto subito. Tuttavia non credo che il Medioriente sia cambiato, è sempre lo stesso. L’Iran adesso, per esempio, era quello che era dieci fa, però io che continuo ad andarci lo trovo migliorato. Anche l’Iraq è migliorato da quando ci ho lavorato nel 2003. Molti Paesi sono decisamente avanzati. Dell’Iran adesso si parla come di un disastro, invece la situazione delle donne è migliorata alla grande! Qualche settimana fa si parla di quella ragazza in bikini (NdR Anna fa riferimento alla vicenda di Ahou Daryaei, la “ragazza dell’università”, come è stata ribattezzata, che a Teheran è rimasta in mutande e reggiseno nell’ateneo in segno, si dice, di protesta contro l’imposizione del velo), ma non si parla delle città in Iran nelle quali le donne vanno in giro senza copricapo, completamente senza hijab. Non ne parla nessuno perché non fa scalpore. C’è un nuovo presidente, ma non se ne parla per lo stesso motivo. Questo è il Medioriente che non interessa a nessuno. Interessa il Medioriente violento, fatto di bombe. Non dimentichiamo che io in Iran ho lasciato il giornalismo dopo l’11 settembre perché volevano che trovassi le bandiere americane bruciate e io non le ho trovate; ho assistito al minuto di silenzio allo stadio di Teheran per commemorare i morti dell’attentato alle Torri Gemelle. Certo che ci sono state anche le bandiere bruciate, ma in quell’occasione nella capitale non c’erano. Se le avessi volute trovare, le avrei trovate probabilmente a Qom, Città Santa dell’Imam Khomeynī o in alcune “nicchie”; è come se volessi trovare la violenza a Milano e andassi a Quartoggiaro e magari la trovo, però se vado in Piazza Duomo non la trovo. Perché la foto della ragazza in bikini, che era chiaramente una squilibrata, dipinta da tutti come l’ennesima vittima dello Stato ha fatto il giro del web, mentre non accade che circolino le foto delle donne iraniane senza hijab? E allora bisogna che qualcuno dica che il Medioriente sta progredendo, seppure il Medioriente è anche Gaza e giustamente se ne parla, ma è anche qualcos’altro di cui, però, non parla nessuno. A me piace portare lo sguardo anche su altre cose perché mi fa rabbia che in questo polverone di guerre non ci accorgiamo che ci sono anche la pace, il progresso e la speranza.

 

 

D. Nel tuo libro Della mia guerra, della mia pace affronti un argomento importante: l’approccio corretto alla ricostruzione di un Paese, l’Iraq, dilaniato dai conflitti intestini, oltre che dal pessimo rapporto con gli Stati Uniti e i suoi alleati. Il metodo della “Aziza Anna” si può definire rivoluzionario e straordinariamente efficace. Perché dunque, ancora oggi, si percorre la via dell’imposizione, anziché esplorare quella della comprensione e dell’integrazione con culture che sono così diverse da quella Occidentale? Perché tutti vogliono lavorare “per” e non “con”?

 

R. Perché è più facile! Perché è veloce! Per capire un popolo ci vuole tempo. Tutti dicono: «Io arriverò lì e ascolterò la gente», ma ascoltare la gente significa farlo per mesi, anni. Io sono arrivata in Iraq con le idee molto chiare: ero la classica occidentale che aveva capito tutto… Ero contro l’invasione Americana; tuttavia, l’invasione dì per sé è durata pochissimi giorni. La maggior parte degli iracheni era felicissima dell’invasione. Non bisogna dimenticare che il 90% di loro erano contro Saddam perché avevano patito le pene dell’inferno sotto il suo regime. Quindi, l’idea di essere affrancati da una delle più tremende dittature che si siano mai viste era la liberazione. Ad essere andato storto è stato il “dopo”. Con gli americani illusi che gli iracheni fossero come gli europei e che avrebbero saputo prendere immediatamente in mano le redini del Paese. È stato lì l’errore. Vedere come il popolo abbia tirato giù statue di millenni fa nel museo di Bagdad e come le abbiano buttate giù dalle scale… Atti animaleschi. Furti dagli ospedali di cose inutili. Strappavano persino le prese dai muri. Sono cose che noi non possiamo capire. Era la rabbia repressa da venticinque anni di dittatura. Io Saddam l’ho incontrato, conosco la sua brutalità. Vedere gli iracheni letteralmente distruggere il Paese ha confuso gli Stati Uniti e i suoi alleati, che non sono stati capaci di prendere le redini del Paese e li hanno lasciati fare. Non hanno capito che bisognava coinvolgere quelli che erano al potere nel processo di ricostruzione. Hanno fatto un errore dietro l’altro. Io stessa, che ero stata contro l’invasione, ho capito che il concetto di “bianco o nero” è una sciocchezza e che tutto è molto più sfumato di così. Ricordo che una volta chiesi ad alcuni iracheni: «Ma non era meglio prima, con Saddam?» e quelli avrebbero voluto sbranarmi! Mi hanno detto chiaro e tondo di non parlare di cose di cui non avevo la più pallida idea. Io ho imparato che è fondamentale mettersi in ascolto a lungo, per questo sono rimasta in Iraq per otto anni con una squadra di 140 persone; per questo mi sono immedesimata nel popolo. E gli iracheni ti fanno impazzire, te lo assicuro. C’erano dei giorni in cui ero allo stremo delle forze per via della loro lentezza. Ricordo ancora quando avemmo l’idea di fornire pannelli solari così da limitare la dipendenza dall’elettricità; ecco, dopo un paio di settimane mi dissero che i pannelli non funzionavano, quindi sono dovuta andare a controllare in loco. Per me, in Iraq, andare a controllare qualcosa significava mettere a rischio la mia vita e quella dei componenti della mia squadra. Alla fine scoprimmo che semplicemente nessuno si era premurato di spolverare i pannelli. Quando gliel’ho fatto notare mi hanno chiesto di mandare i miei a farlo. Capisci? Loro non ci venivano mai incontro, era difficilissimo rapportarsi. Non tutti hanno questa pazienza. Quello che ho fatto io l’ho amato e sono anche stata molto fortunata perché sono riuscita a realizzare progetti importanti per le donne, per i prigionieri… Credevo fortemente in quello che facevo, per questo motivo ho scelto di immedesimarmi nel popolo iracheno.  Persone prima di me, italiani, mi dicevano: «Ragazzina, (perché una donna a trentatré anni per loro è una ragazzina) non so se tu sei una visionaria o una stupida: non lo capisci che qui sono tutti dei subumani?». Cose terribili dette da persone che sono coinvolte nella ricostruzione di una nazione! Devi amare la persona che sta dall’altra parte; ed io realmente gli iracheni li amavo e questo loro lo sentivano. Anche se perdevo la pazienza lo facevo con amore, come una madre lo fa per i propri figli. Questo ha fatto la differenza, questo ha fatto si che io abbia avuto successo; perché, alla fine, Muqtada al-Sadr (NdR il leader del Movimento Sadrista) voleva lanciarmi una fatwa (NdR dispensa fededegna e vincolante emanata da un’autorità religiosa sciita, che equivale ad una condanna a morte per blasfemia) e gli iracheni hanno messo la propria vita a rischio per salvare la vita a me, un’occidentale. Per questo motivo so di aver avuto successo.

 

 

D. Le cose che più mi hanno colpita e affascinata del tuo lavoro in Iraq sono state: l’obbiettivo che ti eri prefissata e la determinazione con il quale lo hai perseguito. Tu non ti sei proposta come “la straniera che porta in dono la soluzione”, ma come la chiave per aprire la porta della collaborazione attiva tra diverse fazioni, Stati e culture. La tua visione è stata non solo incredibilmente all’avanguardia, ma anche unica. Quali sono gli impedimenti de facto al proseguire su questa via?

 

R. La fretta, lo ripeto. Questo non avere tempo di riflettere. Dobbiamo risolvere sempre tutto subito; non abbiamo nessuna voglia di capire quelli che sono i reali problemi dall’altro lato; leggiamo il mondo secondo al nostra visione, ma non lo capiamo, non abbiamo voglia di capire il Medioriente. Ti faccio un esempio: i problemi delle donne sono dettati da quello che noi vogliamo che siano. Un altro esempio: i problemi della politica, ecco, noi pensiamo che tutto il mondo debba essere democratico. Tuttavia, alle ultime elezioni in Italia e in America quante persone sono andate a votare? Siamo davvero sicuri che il modello democratico sia il migliore e che tutte le donne vogliano svegliarsi alle 6 del mattino, lavorare come delle pazze e far crescere i figli dalle tate, che costano un intero stipendio, per poi tornare a casa, cucinare e andare a letto all’una di notte dopo che si sono fatte un mazzo così? Siamo davvero sicuri che questo sia il modello a cui tutte le donne aspirano? Noi leggiamo il mondo secondo la nostra visione occidentale senza chiederci nulla. Ci siamo mai seduti su Khaju Bridge (NdR Isfahan, Iran) a prendere un tè e a sentire ciò che quelle donne vogliono? Io sì, e so che quando loro ci osservano così, mezze isteriche e leggono che la maggior parte dei nostri giovani soffrono di ansia, si chiedono: «Perché soffrite tutti di ansia? Noi non ne soffriamo, eppure voi ci dite che dobbiamo fare questo e quest’altro… E prendete una marea di pillole, che noi non prendiamo. Però ci dite che tutti dobbiamo vivere come voi». Sono stata in Pakistan in moto la scorsa estate, dal nostro punto di vista un Paese di poveracci che invece stanno molto meglio psicologicamente rispetto a noi. Nessuno ha chiesto nulla sui casini internazionali in corso, tutti ci offrivano una tazza di tè, tutti avevano tempo di fare due chiacchiere… Qui nessuno avrebbe tempo di fermarsi, eppure ci arroghiamo il diritto di dire agli altri come dovrebbero vivere le loro vite. E allora uno si chiede: «Siamo davvero portatori di qualcosa di migliore?». Io non ne sono certa. Un’altra cosa è che noi vediamo sempre e solo le guerre e in guerra si sta male, è verissimo; ma quando le nazioni non sono in guerra lasciamole stare! Smettiamo di giudicare e cominciamo a capire le motivazioni delle nostre ansie, del nostro stress, del nostro correre tutti dallo psicologo anziché dire agli altri come devono vivere, coprirsi o scoprirsi. Magari loro non stanno poi così male.

 

D. Nel mio pezzo “L’affare del secolo” ho parlato dei colloqui e degli accordi economici che sembrano intercorrere tra Israele e Arabia Saudita. Qual è la tua personale visione dell’escalation in corso in Medioriente? Pensi che, ancora una volta, saranno gli affari economici a decidere del futuro della regione?

 

R. No, o meglio, che possano incidere è vero, ma non possiamo sempre ridurre tutto all’economia perché significherebbe semplificare un qualcosa di terribilmente complicato. È una faccenda che va avanti da decenni, non si può limitare al denaro. Spesso ci si dimentica che quella Mediorientale è una regione fatta di dinamiche tribali e profonde divisioni religiose che vanno molto al dì là della faccenda economica. Che i Paesi arabi non vogliano, per esempio, inimicarsi Israele in quanto alleato degli Stati Uniti è certamente vero; tuttavia sono sempre stati riluttanti ad allearsi con Arafāt già in passato (NdR Yāsser Arafāt nel 1958 fondò Fatah, la principale organizzazione della resistenza palestinese; assunse dal 1968 l’egemonia all’interno dell’OLP – Organizzazione per la Liberazione della Palestina – e nel 1969 ne divenne presidente, carica che ricoprì fino alla sua morte). Ci sono delle dinamiche che noi Occidentali facciamo fatica a capire: mi riferisco, appunto, alle dinamiche tribali dei popoli arabi. Lo possiamo vedere anche relativamente alla guerra tra Russia e Ucraina; ci sono sempre secoli di storia dietro ogni scontro. Ma la gente non ha tempo di studiare la Storia e, quindi, limita tutto ad un: «Il motivo principale è la gara per la ricostruzione dell’Ucraina»; sì, ma non si tratta solamente di quello. E allora uno dice: «Putin è un pazzo!», ma no che non è pazzo. Secondo questa ottica ogni singola guerra è stata scatenata dalle bizze di un pazzo, ma non è così. Le guerre iniziano per via di precisi disegni politici che si snodano lungo decenni. Allo stesso modo Netanyahu non è un pazzo: sta pianificando ciò che sta accadendo a Gaza da anni; ovviamente Hamas gli ha fornito il pretesto per scatenare una guerra e la consapevolezza che gli Stati arabi, ancora una volta, non si sarebbero schierati dalla parte dei Palestinesi ha aggravato la situazione. Ultimamente, in seguito all’attacco Israeliano in Iran, l’Arabia Saudita ha timidamente accennato alla possibilità di intervenire in un eventuale conflitto. «Finalmente!», aggiungerei. E questo suggerisce che effettivamente Netanyahu sta esagerando. Perché se anche un Paese notoriamente anti-Iran come l’Arabia Saudita sente di doversi schierare significa che si sta andando oltre. Io ho assistito con i miei occhi, in Iraq, a quanto i conflitti atavici religiosi possano influenzare gli scontri tra fazioni e tra Stati. Noi Occidentali questo aspetto fatichiamo a comprenderlo.

 

 

D. Il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, dunque ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace del mondo di oggi e di dirmi in che modo la tua visione potrebbe cambiarla in meglio.

 

R. Non mi piace che la gente veda tutto in bianco e nero. Io stessa vedevo tutto in bianco e nero, ma in realtà tutto è estremamente sfumato. I cosiddetti bad guys non sono per forza cattivi. In alcune parti del mondo a quattro anni ti danno in mano un kalashnikov e tu conosci solo quello: la violenza. Non è questione di malvagità, ma di conoscere solo quel metodo per risolvere i problemi. E chi siamo noi dalla nostra poltrona a Milano, Roma o Londra per giudicare il resto del mondo? Cominciamo a metterci nei loro panni, prendiamo un aereo e anziché andare in Sardegna andiamo in Pakistan, per esempio, andiamo a sederci con loro senza elettricità. Sono persone eccezionali! Facciamo due chiacchiere con questa gente dalla cultura completamente diversa dalla nostra; mangiamo il loro cibo; entriamo in sintonia con il mondo. Ne vale la pena! La vita così è una meraviglia! Ci lamenteremmo molto meno dei nostri problemi e tutto diventerebbe relativo. Bisogna saltare sul quel treno che passa! In tanti mi hanno detto: «Quante vite hai vissuto tu!». Sì, si può andare, tornare, cambiare… Perché stare sempre nel proprio quartiere, fare sempre la stessa cosa…? Io vorrei che le persone capissero questo. Mi piace l’idea di poter stimolare il pensiero dei giovani che oggi soffrono di attacchi d’ansia. La vita è fatta per sbagliare strada, non si muore per questo. L’importante, secondo me, è non fare per trent’anni un lavoro che ti fa schifo. Io ho un sacco di amici che dopo decenni fanno ancora lo stesso lavoro che definiscono “di merda”. Ma perché? Un poveraccio è uno che è nato su una montagna in Afghanistan con i talebani che non gli consentono di spostarsi, non un Occidentale che ha tutte le risorse a sua disposizione per realizzarsi come individuo! Ecco e allora, visto che possiamo, proviamo anche ad andare da un’altra parte ogni tanto.  



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