Secondo il dizionario Treccani, la rivolta sta nel mezzo tra il semplice tumulto popolare scatenato da un fatto ben preciso e l’altra sponda del fiume: quella in cui si naviga quando si vuole davvero cambiare qualcosa, non solo manifestare il proprio dissenso. Quindi, la rivolta è il traghettatore che conduce al cambiamento.
Ph. Casa museo Dieter Noss, Lanzarote, 2022 (Alice Rondelli)
La Prima Intifada, una sollevazione popolare palestinese di massa contro il dominio Israeliano, cominciò al campo profughi di Jabaliya nel 1987 e si estese attraverso Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est. “Intifada” è un termine arabo che letteralmente significa “intervento”, “sussulto”.
In Italia, negli anni '90, qualcuno lo chiamava “rigurgito antifascista”. Un tempo era semplicemente la rivolta, ovvero l’azione di levarsi contro l’ordine e il potere costituito. Secondo il dizionario Treccani, è più che una sommossa perché più improvvisa, e meno estesa e organizzata rispetto ad una rivoluzione. Dunque la rivolta sta nel mezzo tra il semplice tumulto popolare scatenato da un fatto ben preciso e l’altra sponda del fiume: quella in cui si naviga quando si vuole davvero cambiare qualcosa, non solo manifestare il proprio dissenso. Quindi, la rivolta è il traghettatore che conduce al cambiamento.
Nel corso dei secoli, l’Italia ha visto nascere numerose rivolte: a Siena, nel 1371 ci fu una cruenta rivolta dei lanaioli, che riuscirono a sbaragliare le Guardie Imperiali di Carlo IV e a defenestrare letteralmente i governanti; poi, nel 1378 venne il tempo della rivolta dei Ciompi, a Firenze, segnata da un particolare radicalismo, perché non restò confinata alla lotta fra Arti maggiori e minori, ma portò per un breve periodo al potere i lavoranti, ai quali era proibito organizzarsi in una propria corporazione; nel 1647, a Napoli, scoppiò la rivolta di Masaniello a causa dell’iniqua distribuzione del carico fiscale e del soffocante controllo dei baroni sulla società napoletana; successivamente, nel 1848 a Milano, capitale del Regno Lombardo-Veneto, ci fu lo «sciopero del tabacco» (di monopolio asburgico), che fece scoppiare la scintilla dell’insurrezione contro la dominazione austriaca degli Asburgo.
Nell’estate del 1943 – come spiega il sito dell’A.N.P.I. (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) – si cominciò a sviluppare la Resistenza italiana: il più vasto movimento di opposizione al nazifascismo sviluppatosi in Europa, animato da forze eterogenee, diverse tra loro per orientamento politico e impostazione ideologica, unite da un comune obiettivo: la liberazione del paese dal nemico straniero e da quello interno. Alla lotta presero parte militari e civili, persone di ogni età, censo, sesso, religione, provenienza geografica e politica, e la Resistenza fu guidata da personalità di spicco dell’antifascismo, che avevano avversato e combattuto il regime durante tutto il ventennio; accanto a loro, vi furono i militari e i giovani che rifiutarono l’arruolamento nelle file del nuovo fascismo repubblicano. Il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) organizzò comitati militari che assunsero la responsabilità delle forze che si raccolsero in città e in montagna. Si trattò di uno sviluppo complesso e difficile, sovente frammentario; la spontaneità di molte iniziative, le condizioni di clandestinità e segretezza in cui si doveva operare, le difficoltà di collegamento, l’aleatorietà dei contatti, la scarsità di mezzi e i duri colpi inferti dai nazifascisti, misero a dura prova l’impegno delle forze patriottiche. Nonostante questo, il movimento di Resistenza si consolidò e si estese, radicandosi gradualmente sul territorio, trovando consenso e sostegno in gran parte della popolazione, reggendo alla prova dei tanti arresti, delle torture, delle deportazioni nei lager, delle fucilazioni e delle rappresaglie sui civili.
Da quel momento in poi, il popolo Italiano, passato dal rivoltarsi alle ingiustizie al resistere all’oppressore, è capitolato inesorabilmente verso la contestazione per giungere al mero protestare. Sì, perché il secondo dopo guerra ha portato il Paese verso una Costituzione Democratica che, per quanto indispensabile, successivamente ha rivelato il famigerato rovescio della medaglia che nessuno si aspettava o, quantomeno, auspicava: la fine dei caldi moti passionari che fin lì lo avevano condotto.
Tra il 1966 e il ͑68 in Italia, e in altre parti del mondo, si assistette alla nascita di un fenomeno socio-culturale nel quali grandi movimenti di massa socialmente eterogenei (studenti, operai, intellettuali e gruppi etnici minoritari), formatisi spesso per aggregazione spontanea, furono caratterizzati da contestazione giovanile contro gli apparati di potere dominanti e le loro ideologie. Una breve ondata antisistema nata e morta in un giro di Sole.
Con il regolamento comunitario 856/1984 fu decisa, in sede europea, l’istituzione di un regime di quote lattee, su base nazionale, allo scopo di mantenere controllato il prezzo di determinati prodotti dell'agricoltura e dell’allevamento e di garantire così un certo reddito ai produttori; coloro che avessero prodotto una quantità maggiore di quella a loro permessa avrebbero dovuto pagare delle forti multe. Tuttavia, l’ammontare delle quote fu stabilito non sulla base del consumo effettivo nazionale, ma sulla produzione dell’anno 1983, su cui però l’ISTAT potrebbe aver fornito dati molto deficitari; quando nel 1996 il governo italiano, guidato da Romano Prodi, si mosse per applicare la sentenza, ciò provocò una forte inquietudine nel mondo agricolo, perché per molti allevatori l’entità delle multe era tale che per farvi fronte avrebbero dovuto vendere il bestiame e i mezzi di produzione. Iniziarono così a nascere dei comitati spontanei di produttori di latte, spesso in aperto contrasto coi sindacati nazionali degli agricoltori. I Cobas del latte (Comitato Spontaneo Produttori Latte) organizzarono iniziative plateali, come presidi permanenti in posizioni di grande visibilità, blocchi stradali e ferroviari, spargimenti di liquami sulle autostrade, e la marcia su Roma coi trattori per chiedere un incontro tra i rappresentanti degli allevatori e i membri del governo. A tutt’oggi, le loro richieste non hanno portato a nulla di concreto e sono ancora centinaia di migliaia le aziende che hanno dovuto dichiarare fallimento a fronte delle multe inique che si trovano a dover pagare.
Nel luglio 2001, durante le tre giornate del vertice G8 a Genova (la riunione dei capi di governo degli otto maggiori paesi industrializzati) no-global e associazioni pacifiste diedero vita a manifestazioni di dissenso, seguite da tumulti di piazza e scontri tra forze dell’ordine e manifestanti. Contestualmente, nel complesso scolastico Diaz-Pertini e Pascoli, adibito a centro stampa del coordinamento del Genoa Social Forum, facevano irruzione i Reparti mobili della Polizia di Stato con il supporto operativo di alcuni battaglioni dei Carabinieri. Furono fermati 93 attivisti e di questi, 63 furono poi portati in ospedale, tre dei quali in prognosi riservata e uno in coma.
Nel suo libro Le miniere nel Sulcis Iglesiente: una storia millenaria, Fabrizio Arba racconta un’altra importante storia di protesta made in Italy. A causa di vari fattori, a seguito della cessazione forzata di ogni attività mineraria nella regione sarda del Sulcis, nel 2014 restava attiva solo la Carbosulcis, quando la Comunità Europea invitò la Regione Autonoma della Sardegna ad un piano di chiusura definitivo, che prevedeva la fine delle attività produttive entro il 2018, contestualmente alle attività di messa in sicurezza e ripristino ambientale da ultimarsi entro il 2027 e di una serie di attività di ricerca e sperimentazione finalizzate alla riconversione industriale dell’azienda. Scrive Arba: «Di fatto è stata posta la parola fine ad una tradizione millenaria che ha sfamato tante famiglie, fatto sorgere nuovi quartieri e nuove città, dotandole di servizi essenziali come ospedali, asili, scuole e stazioni ferroviarie. Una gloriosa storia che depone grande rispetto sul sudore, le lacrime e i sacrifici di un esercito di minatori, troppo spesso vessati e oppressi, disposti a mettere a rischio la propria vita per un salario minimo. Una storia che racconta la disperazione dei minatori, il timore di non riuscire a tornare a casa e la preoccupazione delle madri, delle mogli e dei figli che fremevano in attesa del suono di quella sirena che annunciava la fine del turno e il rientro a casa dei propri cari.» Il 26 agosto 2012 un centinaio i minatori sardi preoccupati per il loro lavoro si barricarono, con centinaia di chili di esplosivo, a circa 400 metri di profondità nella miniera Carbosulcis, a ovest di Cagliari, per fare pressione sul governo affinché garantisse il futuro del sito. «Siamo preoccupati del fatto che la miniera possa chiudere. L’obiettivo dei minatori è quello di ottenere il finanziamento del “progetto integrato miniera-centrale-cattura stoccaggio dell’anidride carbonica” nel sottosuolo.» Negli anni vi furono altre occupazioni: come quella del 2018, lunga 90 giorni, alla miniera di bauxite di Olmedo, in provincia di Sassari, dove tredici lavoratori sono scesi a circa 150 metri nel pozzo scavato per estrarre il minerale, chiudendo i cancelli ed occupando il sito; e quella durata 36 ore nel 2023, a 600 metri di profondità a Silius, nel Gerrei, a 50 chilometri da Cagliari.
Nel 2021-22, nonostante i ripetuti tentativi della stampa di sminuirne la portata, le proteste contro l’obbligo vaccinale per il virus SARS-CoV-2 hanno riempito molte piazze Italiane. Una anno dopo stiamo assistente a un movimento di protesta globale che non ha precedenti nella storia.
Il 7 ottobre 2023, Hamas (organizzazione politica e paramilitare che ha come focus principale la liberazione della Palestina dall’occupazione Israeliana), attraverso un comunicato da parte del comandante Mohammed Deif ha annunciato l’inizio dell’Operazione Al-Aqsa, lanciando un massiccio attacco missilistico con oltre 5000 razzi dalla Striscia di Gaza verso Israele. Da quel momento poi, e al momento in cui scrivo, l’esercito Israeliano ha bombardato Gaza senza sosta e senza riserve per 15 giorni, commettendo qualcosa come una decina di violazioni del Diritto Umanitario Internazionale. Il DIU è un insieme di regole allo scopo di limitare gli effetti dei conflitti armati, che disciplina la conduzione delle ostilità e protegge le vittime dei conflitti; è applicabile a ogni tipo di conflitto armato internazionale o non internazionale, indipendentemente dalla legittimazione e dalle ragioni del ricorso alla forza. A fronte della strage di civili, in particolar modo di bambini, e del sostegno incondizionato di quasi tutti i governi occidentali e della propaganda sempre più spudorata dei media, una un’ondata mai vista prima di sostegno alla causa Palestinese è fluita in decine e decine di piazze in tutto il mondo.
Quando tra una ventina d’anni ci guarderemo indietro e penseremo di che incredibile mobilitazione siamo stati capaci, sarà troppo tardi per renderci conto di quanto abbiamo lasciato andare avanti la Storia senza che noi, il popolo, fossimo l’attore principale.
L’Unione Europea è ridotta a un grottesco teatro di marionette sul quale Ursula von der Leyen è il pupazzo e gli eurodeputati (eccenzion fatta per gli irlandesi Mick Wallace e Clare Daly) non sono nient’altro che un pubblico che applaude con gli occhi chiusi. Joe Biden, che pare ridotto a un vecchio rintronato, rimane il regista dello spettacolo e comprende molto bene che gli Stati Uniti sono ancora in grado di fare il bello e il cattivo tempo sulla scena internazionale; tanto è vero che, pochi giorni fa, durante un incontro ufficiale con il premier israeliano Netanyahu gli Stati Uniti hanno offerto il loro supporto militare incondizionato, con buona pace dei governi dei paesi arabi che si sono scientemente eclissati tra le sanguinose maglie del genocidio palestinese in corso, come se la cosa non li riguardasse affatto. Nel frattempo, Israele ha iniziato a reprimere con forza le proteste dei Cisgiordani a supporto dei vicini di casa palestinesi e a bombardare a casaccio gli aeroporti siriani e il Libano, agitando lo spauracchio di Hezbollah che, nonostante le promesse, non sembra avere la minima intenzione di aiutare Hamas.
Insomma, nel gioco dei troni l’ondata di malcontento popolare per quella che è una vera e propria pulizia etnica, il cui supporto costerà miliardi alle tasche dei contribuenti e incalcolabili perdite umane, ha perso il suo peso specifico. L’opinione pubblica, un tempo capace di condizionare le scelte dei governi e di intimorire i capi di stato più agguerriti, oggi conta come il dracarys di un drago neonato capace, al massimo, di arrostire una castagna.
Tutto questo è colpa nostra. Abbiamo messo al bando la rivoluzione, etichettandola come un processo violento che non si confà all’animo dell’uomo moderno, che la condanna come un qualcosa di medievale, superato. «Ora non ne abbiamo più bisogno: abbiamo le Nazioni Unite! Abbiamo i diritti umani!» dice la gente; ma la carta resta carta e si brucia con il fuoco. Lo dimostrano le decine di risoluzioni ONU, che dal 1948 ad oggi nulla hanno potuto contro l’apartheid israeliano in Palestina.
Questi arabi che, come ha scritto qualcuno: «Hanno il terrorismo nel sangue», tutti siamo pronti a giudicarli, senza fermarci a riflettere sulla storia che ha fatto di loro ciò che orgogliosamente sono. Li condanniamo proprio noi, moderni occidentali che ripudiano la violenza come strumento per risolvere le controversie, eppure ancora fan di una nuova versione della spietata colonizzazione che ha depredato intere nazioni per decenni: l’esportazione forzata della democrazia; noi, che abbiamo dato vita a ipocrisie istituzionalizzate come l’ONU e la NATO; noi, con la nostra customized democracy, la nostra propaganda h24, le nostre leggi giuste, fatte da persone in giacca e cravatta che ci ridono alle spalle dai loro conti offshore alle Cayman; noi, che crediamo di avere ancora voce in capitolo senza mettere la vita sul piatto della bilancia, ma solo belle parole. Non siamo disposti a sacrificare il nostro status di privilegiati e guardiamo la sofferenza degli altri da dietro uno schermo: vite in due dimensioni che non puzzano di sangue e piscio, ma solo dell’occasione di sentirci dalla parte del giusto.
La violenza è terribile. Tutto quello che vorremmo è vivere in una pace perpetua, dove tutti vinciamo senza perdere niente; ma questa non è la natura dell’uomo. Illuderci che un giorno, come per magia, sorgerà un mondo giusto è un’illusione collettiva, non lavoriamo abbastanza duramente per far si che questo genere di utopia si realizzi. Tuttavia, i conti tornano sempre e pagheremo lo scotto della nostra pigrizia o vigliaccheria, che dir si voglia, nel peggiore dei modi. Già adesso, vediamo l’alba di un Mondo Nuovo, in cui la democrazia si è tolta la maschera e ha svelato il suo volto, che pure in tanti avevamo intravisto. Una realtà in cui basta che un like vada di traverso a qualcuno per essere segnalati alla polizia della morale social, e una parola considerata di troppo per essere bannati, esiliati dal mondo virtuale in cui ci muoviamo come mosche in un barattolo. Pensiamo che quel vetro non ci sia, crediamo di essere liberi, ma quando usciamo di casa per dire la nostra, un manganello si abbatte sulla testa del vicino e poi, forse pure sulla nostra, e allora è meglio non dire niente e rimanere in quella libertà-barattolo fatta di Netflix, cibo d’asporto e scalata sociale.
Il mondo che c’è oggi, fuori dalla porta di casa, è peggiore della più terrificante distopia letteraria. Non ci resta che la Resistenza di chi considera la rivolta alla rassegnazione l’unica scelta possibile.
Un goccio di Intifada versato sul gelo che ci aspetta il giorno dopo tutto questo.