Viaggio nella storia delle riviste letterarie pubblicate in Italia negli ultimi 120 anni e conversazione con Cristina Patregnani, fondatrice di RIVISTA.
L’editrice del magazine letterario RIVISTA ama sperimentare e accostare forme di espressività linguistica, artistiche e grafiche anche molto diverse fra loro. L’idea di fondo è che non esistono confini, proprio come non esistono temi restrittivi o deadline all’interno del progetto. I lavori degli autori vengono raccolti da adesioni spontanee, che seguono alle randomiche call to action dell’editrice. Tutti gli scritti vengono proposti sia in italiano che in inglese. Dal 2021 RIVISTA pubblica la collana “I Monografici”, dedicata a progetti di traduzione inedita e di riscoperta di autori dimenticati, o non adeguatamente valorizzati in Italia. Finora sono sono stati pubblicati: Alessandro Spina (scrittore siriano naturalizzato italiano), Hagiwara Sakutarō (scrittore giapponese di versi liberi, attivo nel periodo Taishō e nei primi Shōwa del Giappone), Rosalía de Castro (poetessa e scrittrice di lingua e nazionalità galiziana), Nikola Šop (poeta jugoslavo) – in uscita.
Le riviste, il mezzo più caratteristico e dinamico della cultura moderna, nel Novecento sono diventate lo strumento attraverso il quale è stato possibile far circolare le idee in maniera veloce e diretta in un ambito sempre più vasto. La loro diffusione viene attribuita, in particolar modo, alla disillusione delle nuove generazioni nei confronti della cultura tradizionale, dominata da alcune grandi personalità. Come scrisse il filosofo tedesco Walter Benjamin: «La vera destinazione di una rivista è rendere noto lo spirito della sua epoca. L’attualità di questo spirito è per essa più importante della sua stessa unità o chiarezza, e perciò una rivista sarebbe condannata all’inessenzialità, qualora non si configurasse in essa una vita abbastanza potente da salvare, col suo assenso, anche ciò che è problematico. Infatti: una rivista la cui attualità non abbia pretese storiche non ha ragione di esistere.»
La prima rivista di letteratura, storia e filosofia degna di nota del Novecento fu La Critica, ideata dal filosofo e politico italiano Benedetto Croce nel 1903, con l’intento di discutere «di libri italiani e stranieri, filosofia, storia e letteratura, senza la pretesa di tenere il lettore al corrente di tutte le pubblicazioni sui vari argomenti, ma scegliendo alcune di quelle che abbiano, per argomento o per merito, maggiore interesse, e che meglio si apprestino a feconde discussioni». Si aggiungeva che «La rivista sosterrà un determinato ordine d’idee, perché niente è più dannoso al sano svolgimento degli studi di quel malinteso sentimento di tolleranza, che è infondo indifferenza e scetticismo». Le pubblicazioni proseguirono fino al 1944 e furono il punto di osservazione sullo scenario di mezzo secolo di storia italiana, passando in rassegna movimenti filosofici e letterari, correnti di opinione, vicende politiche e civili: dal positivismo al futurismo, dall’anteguerra nazionalista al decadentismo letterario, dal primo conflitto mondiale all’avvento del fascismo, dall’idealismo gentiliano fino alla seconda guerra mondiale. Il sodalizio di Croce con il filosofo e pedagogista Giovanni Gentile, si ruppe quando quest’ultimo aderì al fascismo, mentre il primo si schierò risolutamente contro il nuovo regime, pubblicando il manifesto degli antifascisti nel 1925.
Nel 1903, a Firenze, dal desiderio di Giovanni Papini (scrittore e poeta) e di Giuseppe Prezzolini (giornalista e scrittore) di rompere con il positivismo e di rinnovare la cultura italiana, nacque Leonardo, allo scopo di aprire alla contemporanea cultura europea d’avanguardia. Quando nel 1908 le pubblicazioni si interruppero, Prezzolini diede vita a La voce, che fu la più prestigiosa e incisiva delle riviste fiorentine. I vari collaboratori (tra i quali Benedetto Croce, Giulio Einaudi e Gaetano Salvemini) dibattevano sulle pagine della rivista dei principali problemi della società italiana. Dalla fine del 1914, il critico letterario Domenico De Robertis ne fece una rivista esclusivamente letteraria.
Nel 1913, sempre a Firenze, venne fondata Lacerba da Giovanni Papini e Ardengo Soffici, il cui contenuto dissacratorio, anticonformista e provocatorio si proponeva di demolire miti, credenze e convenzioni della società borghese, nonché di esaltare le forze istintive dell’uomo.
Cinque anni dopo, a Roma venne istituita la rivista Valori Plastici da un’idea di quello che diventerà il suo direttore: Mario Broglio (pittore, scultore e scrittore). Le pubblicazioni durarono solamente quattro anni e vi parteciparono numerosi artisti, i quali trovarono in essa un luogo di incontro tra la cultura pittorica locale e nazionale italiana.
Tra il 1919 e il 1923, nella stessa città verrà creata La Ronda, che mirava a restaurare i valori della letteratura intesa come stile, assumendo a modello Leopardi: mirabile esempio di quella prosa insieme poetica e riflessiva che si accordava con il gusto degli scrittori che vi collaboravano, più portati al saggio che alla narrativa.
Lo scrittore e giornalista Alberto Carrocci fondò Solaria nel 1926 allo scopo di dare vita a una vera e propria civiltà umanistica indipendente dalla politica e, allo stesso tempo, di denunciare e criticare la realtà contemporanea, dominata dal regime fascista. La rivista contribuirà a divulgare la prosa di Italo Svevo e la poesia di Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale e Umberto Saba.
Aretusa uscì a Napoli nel 1944 e si era autodefinita la «prima creatura dell’Italia liberata». Sulle sue pagine si dibatteva principalmente il problema del rapporto tra letteratura e politica e letteratura e società». Il suo direttore, l’antifascista Francesco Flora, sarebbe poi diventato responsabile per casa Mondadori della collana Classici italiani dal 1933 al 1960. Il dibattito sulla cultura venne affrontato con saggi importanti, come quello di Carlo Bo intitolato Non c’è più Letteratura?
Nel 1945, a Milano, Elio Vittorini (scrittore e critico letterario estroso, ma intimamente legato a una tradizione individualista borghese) creò Politecnico, il cui proponimento civile era chiaro: la letteratura, la cultura non si sarebbero più limitate a fornire orpelli al privilegio, ma sarebbero intervenute nella intrapresa azione di emancipazione sociale. Il direttore cercò di portare al lettore nuove firme già famose nel mondo – come Sartre – o di ridimensionare su un piano progressivo autori «difficili» come Kafka e Dostoevskij. Ai brani di questi autori o ai saggi su di essi, egli premetteva brevi note integranti.
L’anno successivo, e per soli tre numeri dedicati unicamente alla poesia, Antonio Russi (critico letterario e docente di estetica a Pisa) diresse La strada, nel quale affermava la necessità «di ricondurre l’arte e la poesia nel mezzo di quella pienezza di sentimenti, di affetti e di propositi, da cui il dubbio, la timidezza e il cinismo le hanno sempre più allontanate durante il trentennio di guerra che va dal 1914 al 1945».
In seguito, nell’ambito delle riviste si assistette ad una profonda cesura tra quelle uscite dal 1945 al 1947 e quelle pubblicate dal 1948 al 1957. All’inizio degli anni Cinquanta i dibattiti continuano a ruotare intorno al rapporto politica-cultura. Dal 1947, infatti, la rivista si pose come strumento di ricerca comunista e marxista attraverso la combinazione del gramscianesimo con l’ortodossia sovietica del materialismo dialettico sovietico e dello zdanovismo (una forma di stretto controllo ideologico e politico a carico degli intellettuali da parte di regimi totalitari).
Officina nacque a Bologna nel 1955 con il sottotitolo: “fascicolo bimestrale di poesia”, i cui redattori erano un gruppo di giovani intellettuali che da pochi anni si erano affacciati sul panorama culturale italiano: Pasolini, Leonetti e Roversi, ai quali si aggiunsero successivamente Romanò, Scalia e Fortini. La rivista intendeva operare verso una revisione della tradizione ermetico-novecentesca portando avanti, contemporaneamente, la polemica contro il neo novecentismo e il neo realismo, dunque contro l’autosufficienza letteraria e contro il troppo facile impegno storicistico. I suoi collaboratori erano alla ricerca di una nuova connotazione della poesia che, auspicavano potesse partecipare direttamente alla soluzione dei problemi della società contemporanea.
L’eterogeneità del gruppo direttivo e la mancanza di un orientamento comune portarono i redattori verso altre avventure: Pasolini trovò ospitalità in Nuovi Argomenti, Fortini e Scalia collaborano con Ragionamenti, Roversi fonderà Rendiconti mentre Loenetti si unirà a Il Menabò.
Superata la metà degli anni Cinquanta, in Italia cominciò a soffiare il vento di una nuova letteratura: quella delle avanguardie.
Nel 1959 Il Menabò milanese di Elio Vittorini presentava una rassegna stampa del movimento avanguardistico e dedicava ampie sezioni alla letteratura straniera. Si cercò una nuova forma di linguaggio, che potesse esprimere al meglio la trasformazione in atto nella società, proponendo la rivista come strumento di ricerca e di progettazione aperta in un momento di particolare tensione ideologica, dovuta allo scontro in atto tra neocapitalismo avanzante e cultura marxista. L’ultimo numero uscì nel 1967.
Tre anni prima, sempre a Milano, era nato il Verri, fondato e diretto dal filosofo e critico letterario Luciano Anceschi. Attorno alla rivista si riunì una nuova generazione di poeti, animati da un intento comune di contestazione nei confronti dello stoicismo idealista e postidealista e alla ricerca di una nuova prospettiva poetica e critica. I collaboratori, infatti, intendevano ribaltare i valori tradizionali in netta opposizione ai canoni della politica culturale della sinistra ufficiale, in virtù di un forte antidogmatismo ideologico. La rivista in trent’anni di attività ha pubblicato interventi, testi, saggi caratterizzati quasi sempre dalla volontà di aggiornare i lettori sui dibattiti e sulle nuove direzioni di ricerca – sia italiane che estere – nei più svariati campi.
La rivista Botteghe Oscure (edita dal 1948 al 1959) venne ideata da Marguerite Gibert Chapin sposata Caetani, della quale Ungaretti scrisse: «venuta tra noi dagli Stati Uniti a recare l’entusiasmo della sua giovane Patria, e tuttora so che alla causa delle lettere sarà difficile dedicare un fervore d’intelligenza e di cuore che uguagli il suo». All’epoca, Marguerite aveva già una rivista al suo attivo: Commerce, pubblicata in Francia dal 1924 al 1932. Il primo numero di Botteghe Oscure uscì a Roma nel 1948, e la redazione venne affidata all’allora trentaduenne scrittore e poeta bolognese Giorgio Bassani, che nel 1943 fu arrestato per attività antifascista. Due cose connotano la rivista, distinguendola dalle altre: l’esistenza di un unico curatore (cosa che comporta unicità di intenti) e il taglio antologico della rivista (che, tuttavia, riuscì a fare critica anche indirettamente). Furono proprio quest’ultimo e la scelta di non pubblicare alcun articolo, saggio e recensione ad isolare la rivista nel panorama culturale del secondo dopoguerra. La sezione italiana della rivista riuscì ad incidere sull’orientamento del gusto degli italiani. Pubblicare autori come Bertolucci, Cassola, Petroni, Calvino, Anna Banti, Pasolini significava prendere decisamente le distanze da quella che era stata l’esperienza letteraria principale tra le due guerre: l’ermetismo. Ciò che di esso
veniva rinnegato era l’idea di una letteratura isolata e chiusa in se stessa, senza apertura a ciò che ― nel bene e nel male ― la circondava. Neanche il neorealismo veniva accolto a braccia aperte, così come le neoavanguardie che a metà degli anni Cinqnuanta andavano diffondendosi. Ciò che contraddistinse le scelte editoriali di Bassani fu la volontà di non stabilire limiti a priori, tanto da dire che «l’unica cosa necessaria a un romanzo perché funzioni – l’unica che l’acqua del suo linguaggio deve lasciare trasparire – è la ragione per la quale è stato scritto, la sua necessità». Questo significava, per la poesia, accettazione di una nuova fase sperimentale che si allontanava dall’esperienza ermetica, senza peraltro incamminarsi verso una direzione univoca e prestabilita. Per la prosa la scelta si orientava verso quelle opere efficienti, piene di riflessioni, che avessero raggiunto una maturità espressiva. La preferenza andava dunque, anziché ai prodotti del neorealismo, ad una narrativa di andamento sostenuto; e dato che uno degli scopi della rivista era quello di diffondere ciò che di nuovo e significativo si andava producendo nel campo letterario italiano e internazionale, nella scelta dei testi si riscontrava una percentuale incredibilmente alta di opere inedite di autori noti e meno noti. Proprio in virtù di tale scelta, Botteghe Oscure ospitò autori che rimasero nel “limbo letterario” e scrittori che in quegli anni muovevano i loro primi passi e che divennero, in seguito, significativi nel panorama letterario italiano: Vasco Pratolini, Elsa Morante, Natalia Ginzburg e Paolo Volponi.
Nel periodo cruciale e frammentato tra la metà anni Settanta e l’inizio dei Novanta, la clandestinità e la moltiplicazione delle sedi di pubblicazione furono una condizione programmatica dei movimenti poetici di quegli anni, nonché la caratteristica più evidente di un cambiamento sociologico che riguardava il campo letterario, il ruolo del poeta e il rapporto con la tradizione. Le riviste prodotte negli anni Settanta possono senza dubbio essere definite riviste d’avanguardia: furono anni di avanguardie sotto ogni fronte, da quello politico a quello sociale, e il fronte culturale assorbe tutti gli stimoli provenienti dal vivace contesto in cui si sviluppò.
La rivista Lotta Poetica, nata a Brescia nel 1971 e morta nel 1987, farà proprio il nome di Lotta Continua, una delle formazioni della sinistra extraparlamentare italiana che in quegli anni dominava il fronte comunista rivoluzionario e operaista. L’intento della rivista, però, era quello di diffondere la poesia visiva e le nuove forme di sperimentazione poetica a livello internazionale. L’azione di Lotta Poetica non era esclusivamente di carattere artistico-letterario, ma si connotava come un’attività rivoluzionaria su tutti i fronti, come mezzo di trasformazione attiva della società.
Il legame delle riviste con l’attivismo politico era esplicito nel caso di A/traverso, che fece il suo esordio nel maggio del 1975 a Bologna, con l’intento di attuare una rivoluzione artistica e creativa strettamente connessa a quella sociopolitica. Tra i fondatori c’era Franco “Bifo” Berardi (attivista e saggista), che esprimerà una forte dichiarazione d’intenti con la sua più celebre creatura, Radio Alice, nata nell’ambito universitario bolognese. La radio, come la rivista, si proponeva di compiere una radicale opera di sconvolgimento dello status quo, di destrutturazione dei significati e di scollegamento totale di questi ultimi dai significanti, al fine di ottenere un linguaggio rinnovato, libero dai condizionamenti della lingua, un nuovo tipo di comunicazione volto ad annunciare le parole d’ordine della rivolta.
Altri termini (Napoli, 1972), Tam tam (Parma, 1972), Niebo (Milano, 1977), Braci (Roma, 1980), Scarto minimo (Padova, 1986) e Prato pagano (Roma, 1987) sono riviste imprescindibili per la comprensione della poesia italiana, sia perché alcuni fra i maggiori autori nati negli anni Cinquanta vi hanno pubblicato i primi versi (ad esempio De Angelis, Benedetti, Anedda, Dal Bianco), sia perché vi compaiono interventi di poetica utili per comprendere a pieno l’evoluzione del dibattito culturale in atto. All’inizio degli anni Settanta, l’impatto portato dalla neoavanguardia è ancora al centro delle discussioni poetiche: da qui i molti articoli sul valore ideologico della poesia e le sperimentazioni testuali riconducibili alla poesia concreta, visiva o performativa. Questa fase è ben testimoniata da riviste come Tam Tam e Altri termini. Nella seconda metà del decennio, invece, sulle pagine di Niebo viene negata la possibilità di ricondurre la letteratura a qualsiasi forma di ideologia e ne viene recuperato il valore aurorale, primigenio. Questo secondo orientamento prosegue per tutti gli anni Ottanta, con riviste come Braci, Scarto minimo e Prato pagano.
Negli anni Novanta spuntarono le prime nuove riviste e rivistine letterarie, che solo per l’aspetto ricordavano le fanzine degli anni Ottanta. In questo periodo le pubblicazioni furono molte meno, facevano parte della subcultura e sopravvivevano grazie al passaparola. C’erano ‘tina, una rivista di narrativa indipendente nata nel 1996 dal carattere lieve e libero che ancora oggi continua a ospitare in ogni numero giovani promesse; Il Maltese, che prese il nome da un locale d’altri tempi sulle colline sopra Canelli, a Cassinasco, in provincia di Asti; Il Paradiso degli Orchi, un trimestrale per autori inediti e scrittori affermati, che con gli anni ha dato sempre più spazio a immagini fotografiche e a disegni; Il Babau, autodefinitosi «periodico bisessuale di fashion letteratura», contenente racconti, fotografie, illustrazioni e «tutte le altre cose, stupidissime o veramente acute»; Ellin Selae, pensata come un libro, che contiene molte rubriche e che si definisce «rivelatrice di nuovi punti di vista su questioni d’attualità e critica sociale, sempre con un occhio di riguardo alla civiltà letteraria»; Fernandel, che nasce a Ravenna «con l’ambizione di porsi come mezzo di confronto e di scambio per le diverse esperienze di scrittura, cercando così di superare quell’isolamento in cui allora si venivano a trovare gli esordienti».
Negli anni 2000, con la diffusione su larga scala di internet, la trasmissione delle riviste è diventata molto più semplice: i progetti sono aumentati e hanno assunto sempre più visibilità. Oggi l’universo che vi gravita attorno continua a essere di nicchia, ma è cambiato il riconoscimento da parte dell’ambiente editoriale. È diventato infatti più comune leggere nelle biografie degli scrittori esordienti le riviste sulle quali hanno già pubblicato racconti. Festival letterari come Book Pride, Bookcity Milano e il Salone internazionale del Libro di Torino vi dedicano incontri esclusivi; riviste e magazine se ne occupano nei loro articoli ed è possibile trovare podcast che ne raccontano la storia, la diffusione e le particolarità.
Hook Literary Magazine, nato nel 2020, raccoglie in doppia traduzione italiano-inglese (con apertura ad altre lingue se il testo originale lo richiede) short stories, essay e fotografia, con una sezione ricordi dedicati alla storia novecentesca dell’editoria italiana.
Il primo amore è un quadrimestrale di sconfinamento nato nel 2007, che vede tra i suoi fondatori lo scrittore e drammaturgo Antonio Moresco (anche membro e fondatore di Nazione Indiana, storico blog collettivo); contiene saggi di romanzieri e poesie di cineasti, pagine in cui la letteratura invade la politica e in cui la fotografia si fa racconto; testi in cui la riflessione filosofica assume toni lirici. Ogni numero propone un tema dominante, testi di teatro, racconti, poesie, anticipazioni da libri in uscita, interviste e recensioni.
Ctrl, magazine e casa editrice di reportage narrativo e fotografico, è stata creata nel 2009 a Bergamo ed è diretta da Nicola Feninno.
Verde, fondata a Roma nel 2012, si autodefinisce: «mensile elettrocartaceo autoprodotto e gratuito di protolettere, interpunzioni grafiche e belle speranze». Si tratta di un laboratorio di contaminazioni, racconti e anarchia organizzata che continua a reinventarsi rimanendo sempre fedele a se stessa.
Neutopia, attiva dal 2016, propone un’ibridazione tra racconti (con un occhio di riguardo al postmoderno), poesia sperimentale, spoken word, critica letteraria e reportage.
Dalla metà degli anni Duemila altre riviste nascono in seno ad agenzie letterarie e festival letterari.
Puck! (reincarnatasi in Čapek) è una fanzine diventata una rivista illustrata autoprodotta, fondata nel 2011 e diretta dal disegnatore Ivan Manuppelli (in arte Hurricane), nato a Milano nel 1985.
RIVISTA nasce nel 2019 da un’idea di Cristina Patregnani. É un progetto indipendente, autoprodotto e multi-lingue che ospita poesia, traduzioni inedite, saggi brevi, articoli, prosa breve e qualsiasi forma espressiva che abbia a che fare con la parola. Il primo numero, “Alba su Saturno / Dawn on Saturn”, è uscito nell’aprile 2020 e contiene al suo interno il manifesto del progetto, che si caratterizza da subito per la sua vena underground.
INTERVISTA
(la versione completa è disponibile sul podcast)
D. RIVISTA è un progetto editoriale indipendente, che io ho letto dal primo all’ultimo numero, il cui coraggio mi ha ispirata nella creazione del mio di progetto. Qual è la tua fonte di ispirazione, Cristina?
R. Lo sono state le diverse realtà presenti all’estero. Il 2017 e il 2018 sono stati per me degli anni molto produttivi in termini di scrittura; tuttavia, non riuscivo proprio ad aprirmi una breccia nel panorama italiano, che pure pullula di contesti simili. Sembrava che le mie poesie e i miei scritti in generale non interessassero a nessuno. Così ho cominciato a seguire altre realtà e a scrivere in inglese, ed è stato allora che qualcosa è successo. Sono stati questi piccoli, a volte folli e artigianali progetti editoriali a darmi l’input di costruire un mio progetto. La sfida di utilizzare una lingua diversa dalla propria è rimasta: RIVISTA ha il suo focus, oltre che nell’espressione, nella traduzione.
D. Tutti gli autori che hai pubblicato sono, per lo più, sconosciuti al pubblico. Hai accettato anche dei miei pezzi, che ho scritto utilizzando uno pseudonimo. Al giorno d’oggi la riconoscibilità di una persona può essere facilmente trasformata in brand, allo scopo di monetizzare la creazione di contenuti e accattivarsi così il favore delle aziende. Sui social network più celebri, infatti, vedo tanta gente campare grazie a lauti contratti pubblicitari. A te questo aspetto sembra non interessare: scelta ardita e controcorrente.
R. RIVISTA nasce come progetto autoprodotto, quindi estremamente libero. Va da sé che non ho mai avuto intenzione di brandizzare alcunché, né di monetizzare. Ad oggi le vendite del mio lavoro generano a malapena i soldi per rientrare nelle spese di produzione. Parto quindi da intenti completamente diversi. Io voglio sentire la voce delle persone; adoro sentire e leggere come si esprimono, come trovano la loro creatività attraverso la parola. La parola per me è un’ossessione, che si ripaga offrendo spazio a contenuti che abbiano quella genuinità che mi fa dire: sì, ci siamo! Questa è una cosa bella, la sento. Va pubblicata. Per questo amo dare spazio a inediti, ad autori sconosciuti o mai pubblicati, a esordienti (sia in termini di autori che di traduttori) e via dicendo.
D. È innegabile che l’editoria contemporanea sia ridotta a un ammasso di carta straccia sacrificata sull’altare di like e condivisioni; eppure esistono alcune realtà di nicchia, come RIVISTA, che sono un vero e proprio salvagente gettato al largo per soccorrere chi non si riconosce nella mediocrità letteraria che imperversa sovrana. Custodisci, forse, la segreta aspirazione di cambiare lo stato attuale dei fatti?
R. Assolutamente no. Io non credo che l’editoria contemporanea se la passi male. Se parliamo di editoria in termini di industria editoriale, è ovvio che si debba produrre di tutto un po’. Per far campare la macchina e tutto il carrozzone, bisogna vendere. Ma se ci guardiamo indietro, dall’invenzione della stampa e probabilmente anche da prima, sono sempre esistite forme letterarie considerate “carta straccia”. Secondo me è essenziale che si possa pubblicare di tutto, affinché sussista la libertà stessa di pubblicare. Io non sono qui a giudicare nessuno in termini competitivi né di bello/brutto. So che ci sono cose che mi interessano di più e altre di meno. Mi piace rimanere concentrata sul mio lavoro e ultimamente, sì, anche lontano dai social. Per anni li ho usati, sia per lavoro che per me stessa, ma sono arrivata ad un punto di rottura con questo tipo di comunicazione; non mi appartiene. Ovviamente questo si traduce in perdita di visibilità del mio progetto. La notte dormo comunque.
D. Al principio dell’opera “Gli imperdonabili”, scritto dalla straordinaria Cristina Campo, il poeta Guido Ceronetti affida la sua dedica all’amica ad un verso della poetessa russa Marina Cvetaeva, che così recita: «…l’anima che per l’uomo comune è il vertice della spiritualità, per l’uomo spirituale è quasi carne». Fare letteratura, scoprire e pubblicare autori e tradurre opere straniere è per te un esercizio spirituale?
R. Ci sono troppi nomi importanti in questa domanda e mi sento quasi inibita. Non so cosa sia per me il lavoro letterario; credo qualcosa di simile a un’ossessione. Una fiamma che non si spegne e rivendica il mio sguardo. Sono al suo servizio.
D. Visto che il nome della mia rivista è (F)ATTUALE, ti chiedo di scegliere una cosa che non ti piace nel mondo di oggi e di dirmi in che modo il tuo mestiere potrebbe cambiarla in meglio.
R. La superficialità e tutti i suoi corollari. Ormai è tutto istantaneo e superficiale. Con il mio lavoro vorrei riuscire a trasmettere l’idea che è possibile fermarsi e riflettere, prendersi tempo, rileggere (che operazione meravigliosa!). Stare fermi su qualcosa di piccolo per ore apre mondi infiniti.
Cristina Patregnani è nata il 20 gennaio 1987 nella provincia di Milano, luogo che ha contribuito in massima parte alla sua formazione come poeta. Nonostante abbia lavorato anche in contesti culturali, come l’editoria, il teatro, i festival di cinema e le librerie, l’impronta decisiva sul suo percorso letterario deriva da un ventennio passato dietro i banconi dei bar. Da sempre si dedica con passione alla poesia e alla letteratura, senza mai smettere di formarsi e studiare, cercando di rimanere sia a scuola che nel bosco magico.
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